STORIA - IL DUOMO E LA TORRE CAMPANARIA DI SANTA SOFIA
di Paola Pizzamano
La letteratura locale ritiene che la chiesa sia sorta sulle rovine di un tempio pagano, sulla base del ritrovamento nelle fondazioni di due idoli e frammenti di iscrizioni. La sua origine è inoltre legata alla famiglia dei Lendinara - i Cattaneo (il cui giuspatronato è ancora documentato nel 1529 - e in particolare ad Alberico cui si riferisce la costruzione dell'oratorio verso il 1070. Successivamente l'edificio venne ampliato e dedicato a Santa Sofia, forse a ricordo della moglie di Obizzo d'Este, Sofia Lendinara.
Dalla pieve di Santa Sofia dipendevano le chiese di San Biagio, Villanova del Ghebbo, Costiola, Villa Longale (detta poi del Bornio) e Ramodipalo.
Nel 1288 era documentata l'esistenza di un capitolo di canonici residenti fino alla metà del XV secolo, in una casa in via San Giuseppe, già via delle Grazie. Verosimilmente essa era ubicata in prossimità dell'edificio, ora sede dell'Istituto Immacolata, costruito nel 1460 dal vescovo Biagio Novello, come attestano il suo stemma e l'iscrizione infissi nella facciata.
Nel Quattrocento, Lendinara assurge quindi a centro religioso più importante del territorio: le fortezze di Santa Sofia accoglievano oltre alla chiesa matrice, anche la sede vescovile e il collegio dei canonici.
Nella chiesa esistevano l'altare del Corpo di Cristo, l'antica cappella dedicata ai Santi Giovanni Evangelista e Cristoforo, ricostruita e dotata nel 1470 da Cunizza Cattaneo (passò poi alla famiglia Trotti di Ferrara e ai Gherardini di Lendinara e nel Cinquecento ai Brillo), e altri tre altari rispettivamente dedicati: a Sant'Antonio abate della famiglia Brillo, ai Santi Filippo e Giacomo e quello di Santa Maria Maddalena di giuspatronato dei daziari.
A causa dello stato di abbandono e di fatiscenza della chiesa, nel 1556 il legato apostolico cardinale Carlo Carafa concesse il giuspatronato perpetuo della pieve, con edifici annessi e campanile, alla nobile famiglia veneziana Molin, che si impegnò di restaurarli. Nel Cinquecento la chiesa venne ricostruita e consacrata nel 1566 dal vescovo Canani. Nella visita pastorale di Monsignor Flavio Peroto (21 marzo 1604) essa risulta composta da unica navata, con coro e altare maggiore orientato a levante, otto cappelle e nove altari, campanile a nord presso la canonica "nell'orto dell'arciprete" e cimitero a nord-ovest.
Nel 1647 si istituì la confraternita del Santissimo Crocifisso, il cui altare con quello del Santissimo Sacramento vennero ricostruiti durante il canonicato di Domenico Leopardi (1679 - 1719).
Nel Settecento, malgrado il costante interessamento e intervento dei confratelli delle fraglie del Santissimo Sacramento e del Crocifisso, la chiesa versava in un grave stato di degrado, determinato principalmente dall'incuria dei giuspatroni Molin-Minio, che vennero accusati dall'arciprete Ferro persino di usurpazione del diritto di patronato.
A partire dal 1736 la fabbriceria e l'arciprete Giovanni Ferro decisero dunque di restaurare la fatiscente chiesa e di dotarla di un nuovo altare "di stucco alla romana" dedicato a San Francesco di Paola. Un nuovo impulso nella sistemazione della chiesa venne dato dall'arciprete Martinelli. Durante il suo canonicato (dal 1739 al 1768) si attuò la copertura della chiesa, la costruzione dell'altare maggiore del Santissimo Sacramento e di un nuovo organo, mentre su iniziativa del conte Emilio Gherardini si costruì e dotò la cappella di San Pietro martire di un nuovo altare ligneo con la statua di San Vicenzo Ferreri (ora conservata in sagrestia), lavorati ed intagliati da Bortolo Ponzilacqua.
Nonostante i restauri, la chiesa risultava nel 1760 ancora "cadente e ridotta in uno stato lagrimevole". Così in concomitanza con i lavori avviati dal conte Gherardini per la costruzione dell'altare in marmo di San Vincenzo Ferreri, la fabbriceria decise di ricostruire la chiesa, a partire dalla tribuna. Il progetto del nuovo edificio è dell'architetto ferrarese Angelo Santini e fu attuato con il contributo dei parrocchiani. I lavori, sospesi più volte per mancanza di finanziamenti, si conclusero solo nell'Ottocento.
La ricostruzione e l'ampliamento della chiesa comportò la necessità di acquisire il terreno del cimitero adiacente, dove nel 1777 venne benedetta dall'arciprete Brusantin la prima pietra della facciata. Nel 1778 l'avvento ad arciprete di Santa Sofia del dinamicissimo Don Domenico Scipioni fu determinante per il completamento della chiesa e costruzione di una canonica nuova. Don Scipioni infatti impresse un ritmo accelerato alla ricostruzione e abbellimento della chiesa. Negli anni seguenti il cantiere realizzò le tre navate con pavimentazione, la copertura della chiesa e la facciata.
Quest'ultima fu realizzata su progetto dell'architetto lendinarese don Francesco Antonio Baccari e per la sua costruzione venne utilizzato materiale di spoglio proveniente dalla soppressa chiesa di San Francesco (comperata e demolita nel settembre del 1785 dal nobile Polo Minio). In quella occasione il nobile Andrea Petrobelli donò all'arciprete Scipioni l'altare della sua cappella di San Michele Arcangelo in San Francesco, per completare la costruzione di una porta della chiesa.
La nuova chiesa completata architettonicamente, fu consacrata il 30 settembre 1792 dal vescovo Arnaldo Speroni. Negli anni successivi si abbellì e dotò di nove altari rispettivamente dedicati al Santissimo Sacramento, al Santissimo Crocifisso, alla Santissima Concezione, a San Pietro martire, a San Pietro apostolo, a San Francesco di Paola, a Sant'Antonio abate, a San Vincenzo Ferreri e alla Madonna della Ceriola.
Nel 1793 l'altare maggiore "di fino marmo" venne posto in tribuna e decorato con la grande pala rappresentante Il martirio delle figlie di Santa Sofia. La grande tela (restaurata per il bicentenario) è opera di Carlo Alvise Fabris (Venezia 1746 -1814), artista maturatosi nell'ambito lagunare a contatto con Pietro Longhi e Giuseppe Angeli. A Venezia il Fabris eseguì diverse opere per il suo mecenate Leonardo Bassaglia, e inoltre decorò altri edifici e per la chiesa di San Francesco della Vigna realizzò la quinta e la decima Stazione della Via Crucis, mentre a Padova, per la chiesa di Santa Sofia, dipinse a monocromo iQuattro Evangelisti. Dallo studio dei maestri del classicismo bolognese, il Fabris trae ispirazione per elaborare la complessa composizione lendinarese rappresentante Santa Sofia che assiste al martirio delle sue figlie Fede, Speranza e Carità. Dalla testimonianza di Prosdocimo Zabeo (1814) si apprende che per la realizzazione della grandiosa pala di Santa Sofia.
"furono invitati alcuni pittori, tra quali il nostro (Carlo Alvise Fabris) a produr modelli esprimenti il martirio della vedova Santa Sofia e delle tre figlie di lei. Spediti i modelli a Roma, onde là scelto fosse il migliore, ebbe la lode prima quello del Fabris. Egli dunque fu incaricato dell'impresa, che condusse a termine felicemente. Ebbe per mercede promessa 100 zecchini, ed altri non pochi in contrassegno di piena approvazione. Il suo quadro, ch'è molto grande, egli tratteggiò così. Finse grandioso atrio di tempio, nel quale una grande scala conduce ad un'ara, su cui è in piedi un idolo. Nel centro a piè della scala è posta una delle vergini gittata a terra, che è obbligata a tenere il capo sopra di un informe e grosso legno, a cui sta affiggendola un manigoldo. Le pianta costui nella orecchia superiore uno di quegli appuntati strumenti di ferro, che formato da affilate spire cresenti, mentre si aggira sul corpo che offende, sempre più interna e fa la ferita maggiore. Ecco intanto dalle membra lacerate e rotte il sangue in gran copia, e rende più avvertito il mortale pallore della spasimante donzella. Quegli sgorghi di sangue e le angosce di quel volto furono dipinte disciplinando il pennello dell'artista diligente le cognizioni di un nostro riputatissimo anatomico professore. ... poco lungi da questa spirante vergine, evvi un'altra sorella, a cui, tenuta pei capelli, sicchè debba piegar violentemente la testa indietro, si ferisce da un manigoldo con un pugnale al petto. E la terza è posta nell'alto della scala, già indicata, in faccia dell'idolo. A braccia stese per grande orrore la giovinetta, è a a capo alto e risoluto tiene da sè lontano il fuoco idolatra; ma intanto le piovono addosso da ogni banda spietati colpi di sferza e di flagello, che le vanno togliendo la vita, ma non quella fermezza per cui si mostra inespugnabile, e più forte de' i suoi carnefici. Da un lato si vede in trono il feroce giudice incollerito pe' suoi spezzati comandi, che tien desta la crudeltà de' i suoi satelliti: e dall'altro aggiunge costanza alle sue figlie la intrepida madre, la quale a guisa di quella dei Macabei, ne' i manigoldi che ruotano ad esterminio ed a tormento de' di lei parte il ferro e le verghe, ne' il preceduto e vicino martirio suo, rendono più cauta e men generosa".
L'ampia e studiata ambientazione architettonica e l'affollata disposizione delle numerose figure drammaticamente animate da effetti chiaroscurali, rimandano alla tradizione figurativa tardo-barocca mediata da Giovambattista Piazzetta. Ne deriva una composizione orchestrata in modo teatrale nelle espressioni e gestualità enfatiche dei personaggi.
La tela del Fabris è inserita entro la cornice dipinta a monocromo con angeli, festoni e cherubini da Massimino Baseggio, cui si devono anche le decorazioni monocrome e dorate delle due cantorie di legno a finto marmo.
Alla fine del 1794 risale la decisione di abbellire con pitture a fresco la chiesa. L'incarico venne inizialmente affidato al pittore Tommaso Sciacca (Mazara del Vallo 1734 - Lendinara 1795), introdotto nell'ambiente polesano dall'abate Anton Maria Griffi. Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi in Polesine, l'artista realizzò diverse opere: a Lendinara, presso il convento e la chiesa del Pilastrello, a Rovigo in Duomo e nella chiesa di San Bartolomeo e nella chiesa parrocchiale di Villanova del Ghebbo.
L'intervento dello Sciacca in Santa Sofia è così ricordato dal Brandolese (1795): "fu adunque con lui convenuto che dipingesse il catino della crociera del duomo, e con istraordinario impegno diede mano alla grandiosa impresa. N'era compiuto il bozzetto, e stava allestendo in cera i modelletti di alcune figure: il palco erasi già eretto, nè rimanea al pittore che salirvi per dar principio all'opera, quando fatalmente assalito da improvviso malanno dovette in pochi dì cedere al comune destino." Lo Sciacca morì repentinamente il 2 maggio 1795, mentre si apprestava a dar inizio alla decorazione pittorica della cupola, rappresentante il "Trionfo della chiesa" secondo il programma iconografico dettato dal benemerito e dotto arciprete Domenico Scipioni. Poco dopo l'arciprete Scipioni incaricò il celebre pittore veronese Giorgio Anselmi (Verona 1723 - Lendinara 1797) di continuare l'impresa decorativa. Sicuramente l'Anselmi si attenne al bozzetto preparatorio dello Sciacca, e quindi, su suggerimento iconografico del committente Domenico Scipioni, raffigurò il "Trionfo della Religione" secondo l'Apocalisse di San Giovanni Evangelista. Oltre alla cupola, nel 1796 l'Anselmi dipinse nei pennacchi i quattro Dottori della chiesa: San Gregorio Magno, San Girolamo, Sant'Agostino e Sant'Ambrogio; e nel catino dell'abside la "Trasfigurazione di Cristo". Disgraziatamente mentre si apprestava a concludere il ciclo decorativo, l'Anselmi cadde da un'impalcatura e mori il 30 marzo 1797. All'Anselmi si deve anche la realizzazione dell'affresco con la Purità, soffitto della vecchia sacrestia (l'attuale cappella dedicata a San Lorenzo).
Nel frattempo, spinto dal fervore religioso, Domenico Scipioni manifestò anche l'intenzione di innalzare una maestosa torre campanaria, che doveva dominare il territorio circostante, come simbolo della matricità del Duomo. Ancora una volta la fabbriceria si rivolse all'architetto e sacerdote Francesco Antonio Baccari, che realizzò due progetti di torre campanaria (una di forma cilindrica e l'altra quadrangolare). Con tali progetti, il Baccari divenne socio onorario dell'Accademia Clementina di Bologna, che scelse quello con la torre quadrangolare.
Il 27 marzo 1797 si diede quindi avvio alla costruzione della torre sul terreno del vecchio "segrà". Superate le iniziali difficoltà incontrate nell'escavazione per le fondazioni "su terreno seminato da sorgenti d'acqua", si lavorò salvo brevi interruzioni alla grandiosa impresa della torre fino al 1804, anno di morte dell'instancabile arciprete Domenico Scipioni.
Nel 1806 la chiesa con sagrestia e campanile era conclusa, ad eccezione della facciata e della torre campanaria, che furono terminate diversi anni dopo a causa della precarietà dei tempi e del susseguirsi di problemi finanziari e tecnici, che ne ritardarono la realizzazione. Solo nel 1824 grazie all'iniziativa di Gaetano Baccari per la raccolta di finanziamenti e alla generosità di facoltosi cittadini, si completò la grandiosa torre, con cella campanaria. lanternino e cupola. Sopra la cupola, realizzata da Silvio Soà e suo figlio Giuseppe, si poggiò un piedistallo girevole in ferro con l'angelo di legno, costruito da Silvio Soà e rivestito in rame da Ignazio Bardani. Finalmente dopo sessant'anni, nel 1857, suonarono le otto campane della maestosa torre campanaria, che fu benedetta il 16 novembre dello stesso anno dal vescovo di Feltre e Belluno, monsignor Giovanni Renier. La possente e alta torre s'innalza sulla base rivestita di pietra d'Istria, con l'imponente e massiccio fusto, caratterizzato dalle bugne angolari e terminante con il cornicione lineare aggettante. Su di esso è impostata la cella campanaria aperta da bifore e completata dal leggero lanternino, a forma di tempietto.
Quest'ultimo è delimitato dalla balaustra, con finestre ad arco divise da lesene e colonne sostenenti la trabeazione.
Sopra, infine, è l'armoniosa cupoletta sulla cui base circolare s'innalza e libra l'angelo dalle ali spiegate. Il progetto del Baccari prevedeva il completamento con statue e vasi sulla balaustra del lanternino e sulla base della cupola. Questi però non furono più realizzati.
Nel 1875, il duomo si arricchì di nuovi arredi e paramenti sacri, su iniziativa e zelo dell'arciprete Fernando Cappellini che attuò diversi restauri e commissionò inoltre al pittore Carlo Matscheg la decorazione della chiesa. Le decorazioni, realizzate da Carlo Matscheg, su disegni dell'architetto Ludovico Cadorin, vennero sostituite nel 1938 dalle storie con le "Vicende terrene del verbo Incarnato, Le gesta di Maria e dei Santi, e I fasti della chiesa", eseguita da Tito Poloni, su disegni di Achille Casanova.
Al 1910 risale il completamento della facciata su progetto dell'architetto Domenico Rupolo e sovrintendenza dell'ingegnere Gastone Marchiori di Lendinara. L'attico dell'incompleta facciata, facciata, venne sostituito con un frontone arricchito al vertice dalla statua del Redentore. e agli angoli da quelle di San Giuseppe, San Bellino e sul cornicione da quelle di San Pietro e di San Paolo (tutte di marmo di Carrara). L'attuale facciata risulta dunque costruita plasticamente, con sporgenze e rientranze dei due ordini: ionico l'inferiore, impostato su alto stilobate, e corinzio quello superiore, su cornicione mistilineo.
Entrambi sono articolati nel gioco di semicolonne aggettanti e sovrapposte e lesene nella sezione centrale, che nell'ordine inferiore accoglie il portale con frontone e in quello superiore, un finestrone rettangolare con timpano archivoltato. Nelle due ali laterali, delimitate da lesene sovrapposte, s'inquadrano le porte con timpano archivolato.
La parte terminale della facciata, già ad attico, presenta ora un cornicione mistilineo, sormontato al centro dal frontone a dentelli con apertura circolare. La bella facciata -si è visto- è il risultato di varianti dell'originario progetto di derivazione barocca di Francesco Antonio Baccari, determinante inizialmente da problemi di staticità, e successivamente da esigenze di decoro e unitarietà.