STORIA - IL DUOMO E LA TORRE CAMPANARIA DI SANTA SOFIA
di Paola Pizzamano
La letteratura locale ritiene che la chiesa sia sorta sulle rovine di un tempio pagano, sulla base del ritrovamento nelle fondazioni di due idoli e frammenti di iscrizioni. La sua origine è inoltre legata alla famiglia dei Lendinara - i Cattaneo (il cui giuspatronato è ancora documentato nel 1529 - e in particolare ad Alberico cui si riferisce la costruzione dell'oratorio verso il 1070. Successivamente l'edificio venne ampliato e dedicato a Santa Sofia, forse a ricordo della moglie di Obizzo d'Este, Sofia Lendinara.
Dalla pieve di Santa Sofia dipendevano le chiese di San Biagio, Villanova del Ghebbo, Costiola, Villa Longale (detta poi del Bornio) e Ramodipalo.
Nel 1288 era documentata l'esistenza di un capitolo di canonici residenti fino alla metà del XV secolo, in una casa in via San Giuseppe, già via delle Grazie. Verosimilmente essa era ubicata in prossimità dell'edificio, ora sede dell'Istituto Immacolata, costruito nel 1460 dal vescovo Biagio Novello, come attestano il suo stemma e l'iscrizione infissi nella facciata.
Nel Quattrocento, Lendinara assurge quindi a centro religioso più importante del territorio: le fortezze di Santa Sofia accoglievano oltre alla chiesa matrice, anche la sede vescovile e il collegio dei canonici.
Nella chiesa esistevano l'altare del Corpo di Cristo, l'antica cappella dedicata ai Santi Giovanni Evangelista e Cristoforo, ricostruita e dotata nel 1470 da Cunizza Cattaneo (passò poi alla famiglia Trotti di Ferrara e ai Gherardini di Lendinara e nel Cinquecento ai Brillo), e altri tre altari rispettivamente dedicati: a Sant'Antonio abate della famiglia Brillo, ai Santi Filippo e Giacomo e quello di Santa Maria Maddalena di giuspatronato dei daziari.
A causa dello stato di abbandono e di fatiscenza della chiesa, nel 1556 il legato apostolico cardinale Carlo Carafa concesse il giuspatronato perpetuo della pieve, con edifici annessi e campanile, alla nobile famiglia veneziana Molin, che si impegnò di restaurarli. Nel Cinquecento la chiesa venne ricostruita e consacrata nel 1566 dal vescovo Canani. Nella visita pastorale di Monsignor Flavio Peroto (21 marzo 1604) essa risulta composta da unica navata, con coro e altare maggiore orientato a levante, otto cappelle e nove altari, campanile a nord presso la canonica "nell'orto dell'arciprete" e cimitero a nord-ovest.
Nel 1647 si istituì la confraternita del Santissimo Crocifisso, il cui altare con quello del Santissimo Sacramento vennero ricostruiti durante il canonicato di Domenico Leopardi (1679 - 1719).
Nel Settecento, malgrado il costante interessamento e intervento dei confratelli delle fraglie del Santissimo Sacramento e del Crocifisso, la chiesa versava in un grave stato di degrado, determinato principalmente dall'incuria dei giuspatroni Molin-Minio, che vennero accusati dall'arciprete Ferro persino di usurpazione del diritto di patronato.
A partire dal 1736 la fabbriceria e l'arciprete Giovanni Ferro decisero dunque di restaurare la fatiscente chiesa e di dotarla di un nuovo altare "di stucco alla romana" dedicato a San Francesco di Paola. Un nuovo impulso nella sistemazione della chiesa venne dato dall'arciprete Martinelli. Durante il suo canonicato (dal 1739 al 1768) si attuò la copertura della chiesa, la costruzione dell'altare maggiore del Santissimo Sacramento e di un nuovo organo, mentre su iniziativa del conte Emilio Gherardini si costruì e dotò la cappella di San Pietro martire di un nuovo altare ligneo con la statua di San Vicenzo Ferreri (ora conservata in sagrestia), lavorati ed intagliati da Bortolo Ponzilacqua.
Nonostante i restauri, la chiesa risultava nel 1760 ancora "cadente e ridotta in uno stato lagrimevole". Così in concomitanza con i lavori avviati dal conte Gherardini per la costruzione dell'altare in marmo di San Vincenzo Ferreri, la fabbriceria decise di ricostruire la chiesa, a partire dalla tribuna. Il progetto del nuovo edificio è dell'architetto ferrarese Angelo Santini e fu attuato con il contributo dei parrocchiani. I lavori, sospesi più volte per mancanza di finanziamenti, si conclusero solo nell'Ottocento.
La ricostruzione e l'ampliamento della chiesa comportò la necessità di acquisire il terreno del cimitero adiacente, dove nel 1777 venne benedetta dall'arciprete Brusantin la prima pietra della facciata. Nel 1778 l'avvento ad arciprete di Santa Sofia del dinamicissimo Don Domenico Scipioni fu determinante per il completamento della chiesa e costruzione di una canonica nuova. Don Scipioni infatti impresse un ritmo accelerato alla ricostruzione e abbellimento della chiesa. Negli anni seguenti il cantiere realizzò le tre navate con pavimentazione, la copertura della chiesa e la facciata.
Quest'ultima fu realizzata su progetto dell'architetto lendinarese don Francesco Antonio Baccari e per la sua costruzione venne utilizzato materiale di spoglio proveniente dalla soppressa chiesa di San Francesco (comperata e demolita nel settembre del 1785 dal nobile Polo Minio). In quella occasione il nobile Andrea Petrobelli donò all'arciprete Scipioni l'altare della sua cappella di San Michele Arcangelo in San Francesco, per completare la costruzione di una porta della chiesa.
La nuova chiesa completata architettonicamente, fu consacrata il 30 settembre 1792 dal vescovo Arnaldo Speroni. Negli anni successivi si abbellì e dotò di nove altari rispettivamente dedicati al Santissimo Sacramento, al Santissimo Crocifisso, alla Santissima Concezione, a San Pietro martire, a San Pietro apostolo, a San Francesco di Paola, a Sant'Antonio abate, a San Vincenzo Ferreri e alla Madonna della Ceriola.
Nel 1793 l'altare maggiore "di fino marmo" venne posto in tribuna e decorato con la grande pala rappresentante Il martirio delle figlie di Santa Sofia. La grande tela (restaurata per il bicentenario) è opera di Carlo Alvise Fabris (Venezia 1746 -1814), artista maturatosi nell'ambito lagunare a contatto con Pietro Longhi e Giuseppe Angeli. A Venezia il Fabris eseguì diverse opere per il suo mecenate Leonardo Bassaglia, e inoltre decorò altri edifici e per la chiesa di San Francesco della Vigna realizzò la quinta e la decima Stazione della Via Crucis, mentre a Padova, per la chiesa di Santa Sofia, dipinse a monocromo iQuattro Evangelisti. Dallo studio dei maestri del classicismo bolognese, il Fabris trae ispirazione per elaborare la complessa composizione lendinarese rappresentante Santa Sofia che assiste al martirio delle sue figlie Fede, Speranza e Carità. Dalla testimonianza di Prosdocimo Zabeo (1814) si apprende che per la realizzazione della grandiosa pala di Santa Sofia.
"furono invitati alcuni pittori, tra quali il nostro (Carlo Alvise Fabris) a produr modelli esprimenti il martirio della vedova Santa Sofia e delle tre figlie di lei. Spediti i modelli a Roma, onde là scelto fosse il migliore, ebbe la lode prima quello del Fabris. Egli dunque fu incaricato dell'impresa, che condusse a termine felicemente. Ebbe per mercede promessa 100 zecchini, ed altri non pochi in contrassegno di piena approvazione. Il suo quadro, ch'è molto grande, egli tratteggiò così. Finse grandioso atrio di tempio, nel quale una grande scala conduce ad un'ara, su cui è in piedi un idolo. Nel centro a piè della scala è posta una delle vergini gittata a terra, che è obbligata a tenere il capo sopra di un informe e grosso legno, a cui sta affiggendola un manigoldo. Le pianta costui nella orecchia superiore uno di quegli appuntati strumenti di ferro, che formato da affilate spire cresenti, mentre si aggira sul corpo che offende, sempre più interna e fa la ferita maggiore. Ecco intanto dalle membra lacerate e rotte il sangue in gran copia, e rende più avvertito il mortale pallore della spasimante donzella. Quegli sgorghi di sangue e le angosce di quel volto furono dipinte disciplinando il pennello dell'artista diligente le cognizioni di un nostro riputatissimo anatomico professore. ... poco lungi da questa spirante vergine, evvi un'altra sorella, a cui, tenuta pei capelli, sicchè debba piegar violentemente la testa indietro, si ferisce da un manigoldo con un pugnale al petto. E la terza è posta nell'alto della scala, già indicata, in faccia dell'idolo. A braccia stese per grande orrore la giovinetta, è a a capo alto e risoluto tiene da sè lontano il fuoco idolatra; ma intanto le piovono addosso da ogni banda spietati colpi di sferza e di flagello, che le vanno togliendo la vita, ma non quella fermezza per cui si mostra inespugnabile, e più forte de' i suoi carnefici. Da un lato si vede in trono il feroce giudice incollerito pe' suoi spezzati comandi, che tien desta la crudeltà de' i suoi satelliti: e dall'altro aggiunge costanza alle sue figlie la intrepida madre, la quale a guisa di quella dei Macabei, ne' i manigoldi che ruotano ad esterminio ed a tormento de' di lei parte il ferro e le verghe, ne' il preceduto e vicino martirio suo, rendono più cauta e men generosa".
L'ampia e studiata ambientazione architettonica e l'affollata disposizione delle numerose figure drammaticamente animate da effetti chiaroscurali, rimandano alla tradizione figurativa tardo-barocca mediata da Giovambattista Piazzetta. Ne deriva una composizione orchestrata in modo teatrale nelle espressioni e gestualità enfatiche dei personaggi.
La tela del Fabris è inserita entro la cornice dipinta a monocromo con angeli, festoni e cherubini da Massimino Baseggio, cui si devono anche le decorazioni monocrome e dorate delle due cantorie di legno a finto marmo.
Alla fine del 1794 risale la decisione di abbellire con pitture a fresco la chiesa. L'incarico venne inizialmente affidato al pittore Tommaso Sciacca (Mazara del Vallo 1734 - Lendinara 1795), introdotto nell'ambiente polesano dall'abate Anton Maria Griffi. Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi in Polesine, l'artista realizzò diverse opere: a Lendinara, presso il convento e la chiesa del Pilastrello, a Rovigo in Duomo e nella chiesa di San Bartolomeo e nella chiesa parrocchiale di Villanova del Ghebbo.
L'intervento dello Sciacca in Santa Sofia è così ricordato dal Brandolese (1795): "fu adunque con lui convenuto che dipingesse il catino della crociera del duomo, e con istraordinario impegno diede mano alla grandiosa impresa. N'era compiuto il bozzetto, e stava allestendo in cera i modelletti di alcune figure: il palco erasi già eretto, nè rimanea al pittore che salirvi per dar principio all'opera, quando fatalmente assalito da improvviso malanno dovette in pochi dì cedere al comune destino." Lo Sciacca morì repentinamente il 2 maggio 1795, mentre si apprestava a dar inizio alla decorazione pittorica della cupola, rappresentante il "Trionfo della chiesa" secondo il programma iconografico dettato dal benemerito e dotto arciprete Domenico Scipioni. Poco dopo l'arciprete Scipioni incaricò il celebre pittore veronese Giorgio Anselmi (Verona 1723 - Lendinara 1797) di continuare l'impresa decorativa. Sicuramente l'Anselmi si attenne al bozzetto preparatorio dello Sciacca, e quindi, su suggerimento iconografico del committente Domenico Scipioni, raffigurò il "Trionfo della Religione" secondo l'Apocalisse di San Giovanni Evangelista. Oltre alla cupola, nel 1796 l'Anselmi dipinse nei pennacchi i quattro Dottori della chiesa: San Gregorio Magno, San Girolamo, Sant'Agostino e Sant'Ambrogio; e nel catino dell'abside la "Trasfigurazione di Cristo". Disgraziatamente mentre si apprestava a concludere il ciclo decorativo, l'Anselmi cadde da un'impalcatura e mori il 30 marzo 1797. All'Anselmi si deve anche la realizzazione dell'affresco con la Purità, soffitto della vecchia sacrestia (l'attuale cappella dedicata a San Lorenzo).
Nel frattempo, spinto dal fervore religioso, Domenico Scipioni manifestò anche l'intenzione di innalzare una maestosa torre campanaria, che doveva dominare il territorio circostante, come simbolo della matricità del Duomo. Ancora una volta la fabbriceria si rivolse all'architetto e sacerdote Francesco Antonio Baccari, che realizzò due progetti di torre campanaria (una di forma cilindrica e l'altra quadrangolare). Con tali progetti, il Baccari divenne socio onorario dell'Accademia Clementina di Bologna, che scelse quello con la torre quadrangolare.
Il 27 marzo 1797 si diede quindi avvio alla costruzione della torre sul terreno del vecchio "segrà". Superate le iniziali difficoltà incontrate nell'escavazione per le fondazioni "su terreno seminato da sorgenti d'acqua", si lavorò salvo brevi interruzioni alla grandiosa impresa della torre fino al 1804, anno di morte dell'instancabile arciprete Domenico Scipioni.
Nel 1806 la chiesa con sagrestia e campanile era conclusa, ad eccezione della facciata e della torre campanaria, che furono terminate diversi anni dopo a causa della precarietà dei tempi e del susseguirsi di problemi finanziari e tecnici, che ne ritardarono la realizzazione. Solo nel 1824 grazie all'iniziativa di Gaetano Baccari per la raccolta di finanziamenti e alla generosità di facoltosi cittadini, si completò la grandiosa torre, con cella campanaria. lanternino e cupola. Sopra la cupola, realizzata da Silvio Soà e suo figlio Giuseppe, si poggiò un piedistallo girevole in ferro con l'angelo di legno, costruito da Silvio Soà e rivestito in rame da Ignazio Bardani. Finalmente dopo sessant'anni, nel 1857, suonarono le otto campane della maestosa torre campanaria, che fu benedetta il 16 novembre dello stesso anno dal vescovo di Feltre e Belluno, monsignor Giovanni Renier. La possente e alta torre s'innalza sulla base rivestita di pietra d'Istria, con l'imponente e massiccio fusto, caratterizzato dalle bugne angolari e terminante con il cornicione lineare aggettante. Su di esso è impostata la cella campanaria aperta da bifore e completata dal leggero lanternino, a forma di tempietto.
Quest'ultimo è delimitato dalla balaustra, con finestre ad arco divise da lesene e colonne sostenenti la trabeazione.
Sopra, infine, è l'armoniosa cupoletta sulla cui base circolare s'innalza e libra l'angelo dalle ali spiegate. Il progetto del Baccari prevedeva il completamento con statue e vasi sulla balaustra del lanternino e sulla base della cupola. Questi però non furono più realizzati.
Nel 1875, il duomo si arricchì di nuovi arredi e paramenti sacri, su iniziativa e zelo dell'arciprete Fernando Cappellini che attuò diversi restauri e commissionò inoltre al pittore Carlo Matscheg la decorazione della chiesa. Le decorazioni, realizzate da Carlo Matscheg, su disegni dell'architetto Ludovico Cadorin, vennero sostituite nel 1938 dalle storie con le "Vicende terrene del verbo Incarnato, Le gesta di Maria e dei Santi, e I fasti della chiesa", eseguita da Tito Poloni, su disegni di Achille Casanova.
Al 1910 risale il completamento della facciata su progetto dell'architetto Domenico Rupolo e sovrintendenza dell'ingegnere Gastone Marchiori di Lendinara. L'attico dell'incompleta facciata, facciata, venne sostituito con un frontone arricchito al vertice dalla statua del Redentore. e agli angoli da quelle di San Giuseppe, San Bellino e sul cornicione da quelle di San Pietro e di San Paolo (tutte di marmo di Carrara). L'attuale facciata risulta dunque costruita plasticamente, con sporgenze e rientranze dei due ordini: ionico l'inferiore, impostato su alto stilobate, e corinzio quello superiore, su cornicione mistilineo.
Entrambi sono articolati nel gioco di semicolonne aggettanti e sovrapposte e lesene nella sezione centrale, che nell'ordine inferiore accoglie il portale con frontone e in quello superiore, un finestrone rettangolare con timpano archivoltato. Nelle due ali laterali, delimitate da lesene sovrapposte, s'inquadrano le porte con timpano archivolato.
La parte terminale della facciata, già ad attico, presenta ora un cornicione mistilineo, sormontato al centro dal frontone a dentelli con apertura circolare. La bella facciata -si è visto- è il risultato di varianti dell'originario progetto di derivazione barocca di Francesco Antonio Baccari, determinante inizialmente da problemi di staticità, e successivamente da esigenze di decoro e unitarietà.
La chiesa è a tre navate, divise da doppi pilastri canalati con capitello corinzio. Il transetto è ampio e sormontato da cupola, così pure la tribuna con l'abside. Gli altari sono nove. Da sinistra il primo già dedicato a San Francesco di Paola e altri Santi, è ora intitolato a Sant'Antonio; il secondo alla Beata Vergine del Rosario: il terzo, già dei Santi Antonio da Vienna e Giovanni Evangelista, è ora dedicato a Santa Rita da Cascia: il quarto al Santissimo Sacramento. L'altare maggiore è dedicato a Santa Sofia. Da destra il primo è dedicato alla Beata Vergine della Salute; il secondo allo Spirito Santo; il terzo a San Pietro Apostolo; il quarto, già di San Vincenzo Ferreri, è ora dedicato alla Madonna.
Altre tre campagne di restauri furono attuate nel corso del Novecento. Nella chiesa e in sagrestia, sono conservate diverse opere d'arte. Alcuni dipinti sono pervenuti alla fine del Settecento da chiese lendinaresi soppresse e da collezioni private.
Sul primo altare a destra, dedicato alla Beata Vergine della Salute, è conservata la pala centinata, che raffigura la Madonna con il Bambino, gli angeli con gli strumenti della Passione e le anime del Purgatorio. La pala fu commissionata al pittore atestino Antonio Zanchi (Este 1631 - Venezia 1722) dalla confraternita della Morte, proprietaria della cappella, come stanno tuttora ad indicare i suoi emblemi (la croce contornata dai simboli della Passione: lance, dadi, tenaglie e martello) che decorano il tabernacolo. Della confraternita della Morte, esisteva un documento in sagrestia, in cui si faceva riferimento al pittore Antonio Zanchi, autore di una pala donata nel 1687 dalla confraternita lendinarese a quella di Loreto (Ancona).
L'atto testimonia quindi che la confraternita della Morte di Lendinara aveva rapporti con il pittore Antonio Zanchi, cui affidò oltre all'esecuzione della Vergine che raccomanda a Cristo le anime del Purgatorio, donata nel 1687 alla Santa Casa di Loreto (dove è tuttora conservata), anche la seconda redazione del dipinto che andò ad abbellire l'altare del Duomo.
Di Antonio Zanchi è anche la pala con i Santi apostoli Pietro e Giacomo o allegoria del papato che decora il terzo altare a destra. Entrambe le opere appartengono alla produzione tarda dell'artista, verso la fine del secolo: e documentano l'evoluzione dello stile dello Zanchi, che da soluzioni fortemente chiaroscurate e naturalistiche, approda negli ultimi decenni del Seicento a formule più pacate sia nell'uso del colore e del chiaroscuro, sia nelle composizioni che si fanno meno affollate. L'intensità naturalistica delle prime opere viene sostituita da tonalità morbide, meno contrastate, soffuse in esplicita sintonia con le tendenze pittoriche di fine secolo. Entrambe le tele presentano composizioni semplici caratterizzate da una diffusa intonazione luminosa e conduzione morbida.
Stilisticamente, le due opere ben si accordano con il ciclo dei dipinti dello Zanchi conservati nella chiesa della Salute di Este.
La tela con la Discesa dello Spirito Santo di Domenico Maggiotto (Venezia 1713 - 1793) collocata sul secondo altare a destra, in marmo di Carrara, proviene dalla chiesa soppressa e distrutta di San Francesco. Fu commissionata dal nobile Nicola Rodari, per ornare l'altare della cappella di famiglia nella chiesa di San Francesco. L'opera venne asportata dalla figlia del Rodari, Ludovica Rodari Leopardi, e trasferita con l'altare, suppellettili, pavimento e sepoltura, nella chiesa di Santa Sofia. Il Maggiotto fu allievo del Piazzetta e uno dei fondatori dell'Accademia di pittura e scultura di Venezia. Nella tela lendinarese l'artista reinterpreta la pittura chiaroscurata del Piazzetta in termini accademici e realizza una composizione moderatamente vivacizzata che risente degli influssi provenienti dall'ambiente romano. Il rimando al Piazzetta si riscontra nel fondo scuro che fa risaltare i colori, ma l'accordo generale che ne deriva denuncia la preferenza del Maggiotto per composizioni schematiche e chiare tipiche della sua fase matura, verso la fine del settimo decennio del secolo.
Le due opere di Agostino Ugolini (Verona 1755 - 1824):Sant'Agostino vescovo, con i Santi Benedetto, Scolastica, Chiara e Placido (firmata e datata 1783) posta sopra la porta della sagrestia; e la Madonna con il Bambino in gloria e i Santi Andrea Avellino, Gaetano da Thiene e Valentino (datata 1787), collocata sopra la porta d'accesso alla cappella di San Lorenzo, provengono dalla chiesa soppressa di Sant'Agata. Entrambe le tele furono commissionate dalle monache benedettine. L'Ugolini, allievo di Giovan Battista Burato e poi dell'Accademia Cignaroli, è considerato uno degli ultimi interpreti del linguaggio barocco, riproposto però in termini convenzionali nelle composizioni di derivazione secentesca ravvivate da un caldo e vivace cromatismo su imitazione di quelle del Cignoroli. Le due opere rientrano nella produzione giovanile e rilevano le buone capacità tencinche e disegnative dell'artista.
L'Ugolini si dimostra qui divulgatore dei modelli classico-rinascimentali, desunti dal costante studio delle opere dei maggiori pittori del Seicento del classicismo romano-bolognese, di cui il Cignaroli, suo maestro, fu raffinato interprete.
Sul primo altare a sinistra è ora conservata la pala con San Francesco tra due angeli, siglata in basso a destra "A.C." (Achille Casanova, di Bologna) e a sinistra "M. Gasperini D.", ma precedentemente vi era la pala (ora conservata in sagrestia) con i Santi Francesco di Paola, Pietro, Gregorio, Antonio, Luigi Gonzaga e Bellino, firmata e data in basso a sinistra: "FRANCESCO MARIA BOSSI ATESTINUS PINT 1790".
Oltre alla tela a carattere devozionale, il pittore bolognese Achille casanova, autore di imprese devorative nella Basilica di Sant'Antonio a Padova e nella chiesa di San Francesco a Bologna, realizzò anche i disegni per la nuova decorazione della chiesa eseguita nel 1938 dal bergamasco Tito Poloni.
Il secondo altare a sinistra accoglie la tela con la Vergine del Rosario con il Bambino in gloria e i Santi Domenico e Caterina da Siena, contornata dai Quindici misteri del Rosario, che proviene dalla chiesetta soppressa di Santa Maria delle Grazie. E' opera tradizionalmente ascritta al pittore lendinarese Giovanbattista Albrizzi o Albrici (Lendinara 1528 - ?). L'artista è documentato nel 1640 come capo della fraglia dei pittori lendinaresi. Fu anche poeta e a lui si riferisce nel 1650 il cambiamento della denominazione dell'Accademia degli Aggirati in Accademia degli Incomposti.
La pala fu commissionata all'Albrici nel 1633 dalla confraternita dei Battuti della chiesa di Santa Maria delle Grazie. Essa fu donata nel 1816 da Francesco Baccari al Duomo. Il soggetto della pala raffigura l'apparizione a san Domenico della Madonna con il Rosario, in occasione della crociata contro gli Albigesi, avvenuta agli inizi del XIII secolo. Da quel momento, il rosario è considerato un'arma contro l'eresia e divenne simbolo del trionfo della cristianità. Come tale, venne riproposto da Pio V in occasione della vittoria di Lepanto nel 1571. La devozione alla Madonna del Rosario si sviluppò soprattutto nei secoli XVI e XVII, periodo in cui l'eresia era molto diffusa. Ma, in questo caso, è verosimilmente da collegare anche alle guerre intraprese dai veneziani contro i Turchi. L'opera attesta una pittura convenzionale, che l'artista lendinarese ha maturato con diligenza su prototipi veneti ed emiliani tardo-cinquecenteschi. Negli episodi deiQuindici Misteri del Rosario, si notano maggiore libertà esecutiva e vivacità cromatica.
Sul terzo altare a sinistra, dove è ora il dipinto con Santa Rita da Cascia realizzato nel 1938 da Antonio Maria Nardi, fino al 1928 stava la pala centinata con Maria Vergine in gloria e i Santi Cristoforo con il Bambino in spalla e Antonio da Vienna (ora conservata in pessime condizioni in sagrestia), opera del pittore Matteo Ghidoni detto dei Pitocchi.
Tra la terza e la quarta cappella a sinistra, in un piccolo ambiente, sono conservati tre preziosi dipinti per antichità e qualità, e due lapidi funerarie.
La tavola con la Madonna con il Bambino e angelo che suona il liuto, è firmata e datata sul cartellino dipinto a destra, sul primo gradino del trono: "opus.dominici.mancini/venetjs.p./1511". Proviene dalla chiesa soppressa e demolita di San Francesco, dove era conservata entro l'altare della cappella della Immacolata Concezione. Dalle testimonianze settecentesche si apprende che la tavola costituiva la parte centrale di un trittico (già smembrato nel Settecento), i cui due scomparti laterali rispettivamente uno con San Giovanni Evangelista e San Giacomo e l'altro con San Girolamo e un altro Santo, passarono nella chiesa di Santa Maria Elisabetta e poi in proprietà di Pietro Brandolese.
Con la soppressione e demolizione della chiesa, la confraternita della santissima Concezione decise di donare la bella tavola del Mancini al Duomo, dove venne collocata sull'ultimo altare a sinistra. E' l'unica opera documentata di Domenico Mancini, artista sconosciuto, forse di origine trevigiana, attivo a Venezia nella prima metà del Cinquecento. Certa è la sua formazione in ambito lagunare a diretto contatto con Giovanni Bellini e Palma il Vecchio. Se da una parte sono espliciti i rimandi alla parte centrale della Pala di San Zaccaria di Giovanni Bellini, dall'altra il particolare dell'angelo che suono il liuto sembra derivare da quello raffigurato nella pala Zerman da Palma il Vecchio. Tuttavia è da rilevare che non ci troviamo di fronte ad un modesto pittore, che replica senza fantasia i prototipi dei maestri, ma ad un artista che si esprime attraverso una pittura "palpitante" in cui il mirabile impasto cromatico trova paralleli solo nella pittura tonale di Giorgione. A tal proposito Roberto Longhi lo definì "un giorgionesco di buona razza" , anche se ancora legato a moduli compositivi di matrice quattrocentesca. Sollecitati dalla superba qualità del dipinto, alcuni studiosi hanno cercato di dare consistenza alla personalità artistica di Domenico Mancini, attribuendogli un gruppo di opere sulla base di affinità stilistiche con la pala autografa di Lendinara. Si è arrivati anche all'ipotesi avanzata da Filippo Trevisani, che l'opera del Mancini sia stata rielaborata in un secondo tempo dal giovane Giovanni Luteri detto Dosso Dossi e che quindi dell'intervento del Mancini rimanga ben poco. Ipostese suggestiva che rimanda al pittore ferrarese Dosso Dossi, presente in Lendinara con la bellissima tavola della Visitazione in San Biagio. Il probabile intervento pittorico del Dossi sulla tavola del Mancini, forse sciupata dall'umidità, potrebbe quindi risalire al periodo dell'esecuzione della pala in S. Biagio. Ma al di là di tale ipotesi, rimane comunque la pregevole qualità dell'opera che rimanda ad un artista formatosi in ambito lagunare-belliniano, che fu aggiornato e attento alle novità coloristiche sperimentate e proposte da Giorgione. Precoce interprete "nella bruciante realizzazione cromatica dell'angelo con liuto" della sensibilità coloristica cinquecentesca affine a quella del giovane astro nascente Tiziano Vecellio.
Nel medesimo stanzino è conservata un'altra tavola di derivazione belliniana, che raffigura la Madonna con il Bambino in trono tra San Lorenzo martire e Sant'Antonio da Padova, la cui esecuzione risale al primo quarto del Cinquecento ed è da riferire ad un allievo del Bellini, Francesco Bissolo (Treviso 1475 - Venezia 1554).
Originariamente conservata sul secondo altare a sinistra, nel corso dei secoli la tavola ha subito diverse manomissioni, di cui ancor oggi si vedono le tracce sul primo gradino del basamento del trono, dove nel Seicento furono inseriti la figura di San Carlo inginocchiato tra i due Santi e un'iscrizione. Inoltre la tavola fu tagliata e sagomata nella parte superiore, dove si intravede il coro di angeli, per adattarla all'altare entro il quale fu posta nel corso del Seicento. L'artefice è Francesco di Vittore Bissolo, allievo di Giovanni Bellini, con il quale collabora già a partire dal 1492 nella decorazione di Palazzo Ducale.
L'apprendistato e il conseguente rapporto di collaborazione con Giovanni Bellini, documentato fino al 1510, sono determinanti per la formazione artistica del Bissolo, il quale, fino alla morte avvenuta nel 1554, attingerà sistematicamente dal repertorio figurativo del maestro, per comporre le immagini sacre richieste soprattutto dalla committenza dell'entroterra. Anche in quest'opera, il Bissolo riprende lo schema tradizionale della Madonna con il Bambino, seduta in trono tra due santi di diretta derivazione belliniana. Infatti i personaggi raffigurati in primo piano, in uno spazio delimitato da una cortina che funge da elmento di separazione del paesaggio sul fondo, rimandano a moduli e tipologie del Bellini. Anche se qui, nella semplicità della composizione (e anche per i drastici interventi subiti), i santi replicati dal Bissolo perdono la consistenza e soprattutto l'umanità delle figure del maestro, riducendosi a piatte immagini delineate e bloccate in superficie. L'opera risale probabilmente alla fine del secondo decennio del secolo, al periodo in cui l'artista, alternando l'attività di pittore a quella di indoratore (per la quale era particolarmente apprezzato), sperimentava il suo stile esemplando il Bellini e le soluzioni pittoriche proposte da Palma il Vecchio, cui rimandano le figure dilatate e il paesaggio.
Nello stesso ambiente è conservata anche una tela con Eccehomo, che rimanda alla cultura figurativa secentesca di derivazione caravaggesca. E' da identificare con il dipinto che il Brandolese vide nel 1795 nella cappella di casa Gennari. Successivamente pervenne al Duomo, dove è ricordato dal Cappellini nello specchio dell'armadio della sagrestia.
E' una copia di un dipinto di Domenico Fetti (Roma 1588 - Venezia 1623), che dipinse più volte il tema dell'Eccehomo come testimonia l'esistenza di numerose copie. Nella tela lendinaresi si riscontra la fedele aderenza al prototipo del Fetti della collezione Giovannelli, da cui riprende anche l'iscrizione dipinta: "EGO PRO TE HAEC PASSUS SUM: TU VERO QUID FECISTI PRO ME". Inoltre nell'opera si rileva l'atmosfera di dolcezza struggente e la morbida conduzione pittorica tipica dello stile maturo del Fetti.
Tuttavia la resa generale e alcuni caratteri, quali le macchie di sangue sulla veste e l'iscrizione dipinta, sembrano riprodotti meccanicamente. Nella recente monografia dedicata a Domenico Fetti, Safarick riferisce la tela lendinarese ad un copista prossimo alla cultura figurativa e sensibilità pittorica del maestro.
Sul quarto altare dedicato al Santissimo Sacramento, è conservata la pala con il Sacro Cuore di Gesù di Biagio Biagetti (Porto Recanati 1877 - Macerata 1948), che la realizzò a Roma nel 1929. Allievo e collaboratore di Ludovico Sietz, Biagetti aderì nelle sue ultime opere alle ricerche di Previati e di Segantini, dai quali derivò l'acceso illuminismo che si riscontra anche nell'opera di Santa Sofia.
Nella sagrestia sono conservati diversi dipinti. La lunetta con il Padre Eterno proviene dalla chiesa di S. Francesco ed è copia tratta dal Veronese.
Pure le due tele rispettivamente raffiguranti San Lazzaro e San Francesco in meditazione, provengono probabilmente dalla chiesa di San Francesco. Entrambi i dipinti sono opera di Pietro Muttoni detto della Vecchia (Venezia 1603 -1678), eclettico artista che tenne in Venezia una rinomata e attivissima bottega. Dopo essersi formato presso il Padovanino, il Muttoni subì il fascino delle soluzioni pittoriche di ascendenza caravaggesca divulgate dal Saraceni e dal Le Cler. Numerose sono le repliche del San Francesco in meditazione, presso la sagrestia della Salute di Venezia (1630), la Pinacoteca dell'Accademia dei Concordi di Rovigo, la Galleria Estense di Modena, l'Alte Pinacothek di Monaco, San Nicolò dei Mendicanti di Venezia, l'IRE di Venezia e in San Michele in Isola, il Museo Maguin di Digione, il convento dei Cappuccini di Mestre, il Museo Civico di Vicenza, nel Szepmuvèzeti Muzeum di Budapest e nel Byerische Staatsgemaldesammlungen di Monaco. La lucerna ad olio che dona luce al San Francesco è un motivo ripreso dal repertorio figurativo del Le Clerc, mentre propri della sensibilità pittorica del Muttoni sono alcuni elementi che si riscontrano in entrambe le tele lendinaresi: la finezza di esecuzione, la tipologia dei personaggi e l'uso del chiaroscuro come elemento decisivo nella realizzazione e interpretazione dei soggetti. La figura di San Lazzaro si stacca dal fondo scuro grazie alla luminosità della candida camicia e delle brache rosse, mentre quella di San Francesco con le mani incrociate sul tavolo, è colpita dalla luce della lampada ad olio.
La tela centinata con la Maria Vergine in gloria che porge il Bambino a San Cristoforo con Sant'Antonio da Vienna, era originariamente conservata sul terzo altare a sinistra, dedicato a Sant'Antonio da Vienna, San Cristoforo e San Giovanni Evangelista, di antico giuspatronato della famiglia Brillo. La pala, in pessimo stato di conservazione, è opera di Matteo Ghidoni detto dei Pitocchi.
Il Ritratto dell'arciprete Martinelli e quello di altro Prelato, sono opere del XVIII secolo e richiamano la ritrattistica di area lombarda.
Il grande quadro con Scene della vita di San Costanzo è opera firmata da Bartolomeo Letterini (Venezia, 1669 - 1745), artista che trasse ispirazione dal linguaggio e repertorio figurativo naturalistico di Pietro della Vecchia. Il rimando a Pietro della Vecchia è nella scena del Santo che dona l'elemosina al vecchio mendicante, seduto su uno scanno, e nei personaggi che partecipano agli episodi ai limiti del quadro. Tuttavia la generale intonazione chiara del dipinto, manifesta il tentativo di aggiornamento del Letterini alle tendenze pittoriche del XVIII secolo. La ripresa della luminosità è di esplicita matrice veronesiana, come pure l'ambientazione della rappresentazione all'interno della chiesa di San Sebastiano, dove San Costanzo predicava. Si percepisce chiaramente, poi, la particolare attenzione del Letterini per gli elementi tratti dalla vita quotidiana: il cane, gli oggetti sparsi sul pavimento, la monumentale scala posta al centro che viene ad assumere quasi un ruolo centrale. Ne deriva una concezione degli eventi sacri meno aulica e divina, ma sicuramente più immediata e vicina alla sensibilità religiosa dei devoti. Così le scene raffigurate, relative ai miracoli di San Costanzo, sono rivissute e proposte in una dimensione quotidiana. Al centro sta il Santo, sopra la scala, il quale si appresta come un premuroso sacrestano, aiutato da un angelo, a far ardere la lampada con acqua. Ancora a sinistra, il Santo è raffigurato con abiti signorili mentre fa l'elemosina al vecchio seduto sullo scanno, alla presenza discreta di alcuni personaggi probabilmente tratti dalla realtà.
Altri dipinti conservati negli ambienti della sagrestia, provengono da diversi oratori lendinaresi. Infine, nel camerino della sagrestia vecchia, ora cappella di San Lorenzo, è da segnalare una tela centinata con la Madonna e i Santi Lorenzo e Sofia con tre agioletti, forse pala dell'antico altare maggiore. La tela, molto rovinata, appartiene all'inizio del Seicento.
Sull'altare della cappella dedicata a San Lorenzo, sta la tela con il San Lorenzo, particolare tratto dall'opera del Bissolo dal pittore lendinarese Domenico Marchiori nel 1860.
In chiesa si conservano inoltre alcune pregevoli sculture.
Entro una nicchia sulla parete del transetto, a destra, una Madonna con il Bambino in terracotta, ridipinta e mal conservata. Lungo la navata centrale sono diverse statue dello scultore veronese Gaetano Muttoni (1762 - 1864), autore di diverse opere in rovigo, Mantova e Verona e fratello del più noto Pietro.
Altre cinque statue decorano la facciata: al centro quella del Cristo Redentore, e ai suoi lati, due per parte, quelle di San Giuseppe, San Bellino, San Pietro e San Paolo.
Si ricordano inoltre i lavori di intaglio di Giovanni Ponzilacqua: il baldacchino volante dell'altare maggiore, i grandi angeli, l'armadio della cantoria e due banconi in sagrestia, ma soprattutto le due grandi croci lignee, quella detta "del Pellicano" e l'altra altamente drammatica, che suggeriscono, insieme con la croce conservata in San Biagio, l'originalità e l'abilità tecnica dell'artista lendinarese.
Di Silvio Soà, autore dell'originario angelo della torre campanaria, si conserva in sagrestia il modello in scala (1830) della torre stessa. Il coro ligneo è invece opera di Antonio Soà.
Nel 1973 l'angelo svettante della torre campanaria, venne distrutto da una saetta e quindi sostituito da uno nuovo che fu realizzato dal professore Vedovato di Vicenza.
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