Santuario del Pilastrello

Pilastrello

 
Prima di sfogliare questa importante opera, ricordiamo brevemente l'affascinante storia della Madonna Nera.

Era il 1509 quando accadde a Lendinara un fatto prodigioso destinato a condizionare in maniera profonda la vita della popolazione.

Nella notte tra l'8 e il 9 maggio si abbatté sul territorio un violento temporale che provocò lo sradicamento di alberi e lo scoperchiamento di alcune case.
 
Nelle primissime ore del mattino un certo Matteo Brandolese percorreva la strada proveniente da Cavazzana. Arrivato in prossimità del borgo Raverese, vicino alla casa di Giovanni Borezzo, rimase estasiato da un bagliore proveniente dalla statua di una Madonna, che era stata strappata dalla bufera da una nicchia posta sulla facciata della casa dello stesso Borezzo. La statuetta era stata portata dalle raffiche di vento sopra una siepe, dove rimase per molti giorni, divenendo per il suo splendore meta di curiosi e fedeli.

L'avvocato Lorenzo Malmignati, venuto a conoscenza dell'insolito fatto, decise di costruire a proprie spese un capitello per collocarvi la statuetta.

Nel 1576 Ludovico Borezzo, discendente di Giovanni, decise di restaurare l'ormai fatiscente capitello della Madonna. Per impastare la calce venne attinta acqua da una fonte vicina, ma essa da chiara e limpida diveniva di color sangue.

L'accaduto produsse grande impressione. Correvano tempi difficili per il Polesine. Lo straordinario fenomeno si ripeté al termine di una processione propiziatoria per le vie cittadine. Ad esso fecero corona altri fatti miracolosi connessi all'acqua sgorgante dalla fonte...(omissis) (tratto da: LENDINARA Itinerari storico-artistici - maggio 1996 - Biblioteca comunale)

beataverginedelpilastrelloIl legame tra la città di Lendinara e la Madonna ha radici antiche.
Il 9 maggio 1509 accadde un fatto straordinario. Dopo una nottata di vento e di pioggia la statua della Madonna, che Giovanni Borezzo aveva posto in una nicchia sulla facciata della sua casa, fu ritrovata in una siepe di sua proprietà, sfolgorante di luce. Per permettere l'adorazione dei fedeli che, da subito, considerarono miracoloso l'avvenimento, Lorenzo Malmignati, noto giurisperito lendinarese, fece costruire a sue spese un capitello con altare dove fu collocato il simulacro.
Settant'anni più avanti il secondo determinante evento. Avvenne nella primavera del 1576. Lodovico Borezzo (ancora dunque un Borezzo) volle restaurare il capitello su cui era posta la venerata statuetta. Ma ogniqualvolta i muratori attingevano acqua da una fonte vicina per stemperare la calce, essa da chiara e limpida diveniva di color sangue.

   L'accaduto produsse grande impressione. Correva un anno difficile per Lendinara tormentata da una calamitosa pestilenza. Lo straordinario fenomeno si ripeté al termine di una processione propiziatoria per le vie cittadine. Ad esso fecero corona numerosi altri fatti miracolosi connessi all'acqua sgorgante dalla fonte.

   Il 3 maggio 1577 il Consiglio di Lendinara propose, previa approvazione del Vescovo, di costruire un tempio come concreto ringraziamento per le grazie ottenute. L'autorizzazione ecclesiastica arrivò sei giorni dopo, proprio nell'anniversario della prima manifestazione della Madonna (9 maggio). Nello stesso anno prese avvio il processo canonico sui miracoli della Beata Vergine del Pilastrello che permise di constatare la veridicità delle guarigioni, dando così il via all'erezione del santuario. Il 26 agosto 1577 si pose la prima pietra della chiesa con messa in duomo e processione guidata dal vescovo diocesano mons. Giulio Canani.

   Cinque commissari nominati annualmente dalla municipalità avevano il compito di proteggere e tutelare il luogo e raccogliere le elemosine che arrivavano copiose. Nel 1579 i lavori relativi alla costruzione della chiesa furono ultimati e il 16 maggio di quell'anno il simulacro della Madonna venne trasportato dal capitello al nuovo tempio con una solenne processione, ed esposto sopra un altare di marmo dal vescovo Canani. Nel 1584 il tempio fu consacrato e intitolato alla Natività di Maria, festa liturgica che ricorre l'8 settembre, maggiore solennità della congregazione olivetana, e da allora in poi della città.
basilicaantica   Il 10 febbraio 1595 il Consiglio Comunale con pubblico decreto consacrò Lendinara e il territorio alla Beata Vergine, chiedendone la protezione. Si stabilì inoltre che il 16 maggio, giorno del trasporto della statua della Madonna, si celebrasse ogni anno una solenne Santa Messa e una processione dal capitello alla chiesa (ultimata nel 1579): La Repubblica Veneta, nello stesso anno, acconsentì che venisse posto nello stemma civico l'effigie della Madonna sopra la torre destra del castello merlato, mentre il leone di S. Marco fu collocato sopra la torre di sinistra. La Vergine è simbolo ancora oggi presente nello stendardo della città di Lendinara.

   Alle cadenze secolari del 1695, 1795, 1895, 1995 fu rinnovata con solenne cerimonia la dedicazione della città alla Madonna, segno di una devozione profonda verso la presenza vivificatrice della Beata Vergine.

   Contemporaneamente all'inizio dei lavori per la costruzione del tempio si dovette affrontare il problema relativo a chi affidare l'officiatura del luogo sacro. Con la mediazione di don Teofilo Malmignati, monaco olivetano di origini lendinaresi, il consiglio deliberò nel 1578 che il «pio e miracoloso luogo insieme con la chiesa sia liberamente concesso alla congregazione di S. Benedetto di Monte Oliveto». La scelta fu dettata da molte motivazioni quali la presenza dell'ordine in Polesine (a Rovigo nel monastero di S. Bartolomeo), ma soprattutto la particolare devozione degli olivetani per la Madonna. Il Definitorio maggiore della Congregazione accettò l'oblazione della chiesa e quattro benedettini olivetani entrarono in Lendinara il 7 settembre 1578. Fin dall'inizio i monaci divennero una guida e un conforto per la popolazione e i pellegrini e il santuario «la più cara gemma» di Lendinara.

 
 Il simulacro della Madonna è alto poco più di 30 centimetri. Originariamente era ottenuto da un unico pezzo di legno d'ulivo, di colore scuro quindi, da cui la nomèa di Madonna Nera con cui la Vergine di Lendinara prese ad essere chiamata.

   Raffigura la Vergine come Madre e Regina, seduta in trono, con la corona in capo mentre tiene in braccio il Bambino Gesù pure incoronato e in atto di benedire come Maria. Già dal 1576 appariva vestita in segno di onore anche per nascondere il rustico incavo che la statuetta aveva dalle spalle alla base del trono.

   La Madonna di Lendinara è comunemente conosciuta come Madonna del Pilastrello.
Documentariamente questa intitolazione compare nel 1577, anno di inizio della costruzione del santuario. Il terminepilastrello ha avuto diverse interpretazioni: chi lo considera nome derivato dal dialetto veneto e usato per indicare il capitello; chi, invece, pensa che la statua della Madonna sia stata posta su una colonna (pilastrello) prima della traslazione nella chiesa o che il nome indicasse genericamente una base di appoggio della statua per meglio mostrarla ai fedeli.

   La tesi più accreditata, comunque, fa derivare pilastrello dalla lingua spagnola in quanto a Lendinara all'inizio del '500 soggiornavano diversi soldati spagnoli impegnati militarmente nella Lega Santa e nella Lega di Cambrai e che potessero averla chiamata in questo modo ravvisando nella Madonna di Lendinara diverse analogie con la Madonna del Pilar di Saragozza, già patrona della Spagna. Ad avvalorare ulteriormente questa ipotesi c'è l'approvazione che la Santa Sede fece di una messa propria della Madonna di Lendinara, suggerendo di seguire quella per la Madonna di Saragozza.

   Il 4 settembre 1981 ignoti malviventi rubarono la statuetta della Vergine che non fu più ritrovata. Fu sostituita con una nuova immagine della Madonna in legno di cirmolo, simile alla precedente, realizzata dallo scultore gardenese Ferdinando Prinoth.

   Venne benedetta nell'udienza generale del 30 dicembre 1981 dal Papa Giovanni Paolo II e collocata, durante una solenne cerimonia celebrata dal vescovo di Adria-Rovigo Mons. Giovanni Sartori, il 1° gennaio 1982, nella abituale nicchia, dove ancor oggi si trova. Al centro dell'arco maggiore di volta nella navata centrale, in caratteri dorati e maiuscoli, è scritto il titolo di «Lendinariensum Thesaurus».
 
Il Santuario della Beata Vergine del Pilastrello, parte del più vasto complesso abbaziale, è situato ai margini dell'insediamento urbano.

   Fin dall'antichità l'edificio religioso è posizionato alla convergenza di tre importanti assi viari quali la strada di accesso a Lendinara, la via rettilinea che conduceva al non più esistente Convento dei Cappuccini e la via diretta verso il centro e il Duomo di S. Sofia.

   La chiesa ancora oggi costituisce il naturale fondale prospettico dello stradone della Madonna, divenuto una sorta di piazza allungata protesa all'osservazione del monumento, luogo di aggregazione sociale per lo svolgersi del mercato fieristico e percorso principale di feste religiose.

   L'ingresso attuale del Santuario si erge dal piano stradale mediante due gradini ed un sagrato pavimentato con lastre di marmo rosso di Verona.
La facciata venne realizzata nel 1805 su progetto didon Giacomo Baccari, autore della ristrutturazione che ha interessato l'intero complesso architettonico religioso, modificando la sua struttura preesistente con l'aggiunta delle navate laterali. Forte è il rimando allo stile rinascimentale, ma anche alla tradizione architettonica ferrarese, realtà culturale fortemente presente in tutto il Polesine.

   Il fronte si articola su due ordini separati da una cornice marcapiano aggettante sulla quale è leggibile l'iscrizione«INDULGENZA PLENARIA QUOTIDIANA PERPETUA E MOLTISSIME ALTRE PER LI VIVI E PER LI MORTI». A coronamento della sommità un frontone triangolare classico raccordato all'ordine superiore da un'altra cornice marcapiano contente l'iscrizione «NATIVITAS TUA MARIA GAUDIUM ANUNTIAVIT UNIVERSO MUNDO».

   Lesene d'ordine tuscanico scandiscono lo spazio in senso verticale. L'ordine inferiore è ritmato in cinque campate delimitate da sei lesene che poggiano su un alto stilobate in marmo rosso di Verona. A definizione delle campate, con esclusione della centrale, grandi arcate a tutto sesto in rilievo e impostate su basamento di marmo rosso di Verona.

   Il portale d'ingresso è decorato da una cornice a diverse modanature e timpano triangolare superiore sostenuto da due mensole. Nel fregio marmoreo della trabeazione che sorregge il frontone un'iscrizione commemora la figura di Vincenzo Malmignati, commissario per l'erezione della Basilica mariana. Fu lo stesso Malmignati a ordinare la costruzione a sue spese del portale in pietra, la cui generosità venne ricordata anche dall'epigrafe.

   Sopra, una lapide marmorea commemora la consacrazione del sacro tempio svoltasi con solenne celebrazione il 23 settembre 1584 dal vescovo Canani. Ai lati dell'ingresso principale, in corrispondenza delle navate laterali, due porte con cornice sagomata e architrave superiore sorretta da doppie mensole. Di buona fattura i pannelli sbalzati in rame posti all'interno dei riquadri ricavati nei battenti in noce dei due ingressi laterali raffiguranti episodi della Via Crucis (1961). Nel portale centrale i pannelli in rame sbalzato sono dieci e raffigurano i misteri gaudiosi e gloriosi in memoria del Concilio Vaticano II (1962). Entrambe le opere sono state compiute da due artigiani di Castelmassa, Ciorba e Pellicciari.

   L'ordine superiore è suddiviso in tre riquadri rettangolari da quattro lesene d'ordine tuscanico. Nel settore centrale è posta un'apertura circolare con ghiera in mattoni a vista che ha sostituito nel 1933 una preesistente finestra rettangolare di grandi dimensioni; sui laterali due nicchie con le statue marmoree dedicate alla Beata Vergine con il Bambino e a S. Benedetto Abate. Strette volute raccordano armoniosamente i due campi e pinnacoli in muratura campeggiano sulle estremità superiori.

   Prima dei lavori di restauro del 1933 la facciata risultava interamente intonacata; oggi invece appare con il paramento murario in mattoni a vista e solo alcune parti sono celate dalla tinteggiatura.

   Il motivo delle grandi arcate a tutto sesto in rilievo è ripreso anche sul fianco della facciata. In alto nella fascia sottogronda sono ancora visibili le decorazioni pittoriche rappresentanti gli emblemi dell'Ordine Olivetano. Per segnalare la posizione della cappella del Bagno anche su questo lato del complesso abbaziale, il Baccari nel 1819 decise di collocare un nuovo e monumentale portale lapìdeo allineato con il suo accesso. Adornano il portale paraste impreziosite da bassorilievi simbolici, allegorie e geroglifici in stile lombardo quattrocentesco, similari agli stipiti dell'ingresso della Cappella del Bagno. Nel timpano del frontone è posto il busto in pietra tenera del Padre Eterno in atto benedicente, già presente nella facciata dell'antico capitello cinquecentesco (1509).
 
Nel 1736 il campanile, come risulta dalla perizia di Bartolo Albori, pubblico perito di Lendinara, era ubicata "sopra la mura della sua chiesa, de altezza di piedi n° otto onze tre di Polesine, e largo piedi sette di Polesine. Il qual campanile poi resta coperto di coppi che si uniscono alli coppi della chiesa ad oggetto di preservar il volto di essa chiesa dalla pioggia(*).
I lavori di costruzione della torre campanaria iniziarono nel 1738 e terminarono tre anni dopo su committenza di Melchiorre Sabini, personaggio eminente di Lendinara, la cui magnanimità è ricordata nella lapide infissa poco sopra la base. Il progetto è opera presumibilmente di Francesco Santini (1698 - 1756) della stimata famiglia estense di maestri muratori e progettisti operanti nel Settecento anche nell'area della transpadana ferrarese. Il modello architettonico utilizzato dal Santini riprende gli schemi già sperimentati dal padre Vincenzo nei campanili di Ceneselli, Bergantino e Zelo, e dal fratello Angelo a S. Pietro in Valle.

   Fu realizzata dalla parte della sacrestia vecchia, con mattoni e pietra istriana per un'altezza complessiva di metri 50,17 e completata da una cupola con croce. "Pose di essa la prima pietra il reverendissimo padre don Giacomo Petrobelli, dotto e benemerito abate del monastero olivetano di questa patria, e senza interruzione di lavoro fu condotta rapidamente a perfezione l'anno 1741. Questa torre d'ordine ionico, lavorata di mattoni arrotati e di pietra istriana con cupola coperta di piombo e concerto di grosse campane si presenta allo sguardo nobilissima e vaga per la sua simmetria e ricorda per la sua maestà il grande animo di chi l'oro profuse per innalzarla" ricorda Giovan Battista Conti(*).
La struttura portante è in mattoni levigati e l'apparato decorativo, costituito da cornici e balaustre in pietra d'Istria. Il basamento della torre a pianta quadrangolare rastremato verso l'alto e bugnato angolare in pietra d'Istria, sorregge l'alto fusto sul quale si aprono alcune piccole aperture atte all'illuminazione della scala interna. I lati sono articolati in riquadri mistilinei che interrompono la linearità e la verticalità della struttura. La canna termina con la cella campanaria aperta verso l'esterno con due bifore delimitate da tre lesene ioniche; al di sopra un tamburo ottagonale, racchiuso da una balaustra marmorea con agli angoli dei quattro lati due vasi, sostiene la cupola a bulbo, con palla dorata e croce in sommità. Nella zona campanaria sono sei le campane posizionate dalla ditta Colbacchini nel 1810.
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* (tratto da: LENDINARA Notizie e immagini per una storia dei beni artistici e librari - a cura di P.L. Bagatin, P. Pizzomano, B. Rigobelli - edizioni Canova).
 
L'intervento del Baccari, risalente alla fine del '700, ha profondamente modificato la spazialità interna dell'impianto che assunse una veste più suntuosa e più consona alla fruizione da parte dei fedeli. Il Baccari colse l'occasione per proporre il progetto al consiglio cittadino che lo approvò il 21 marzo 1793, in previsione dei festeggiamenti che si stavano organizzando per il secondo centenario dell'incoronazione della Vergine del Pilastrello.

   La precedente chiesa si sviluppava longitudinalmente su un'unica navata con volta a botte decorata, terminante con un'abside molto profonda; ai lati della navata sei altari, con la Sacra Immagine della Vergine posta nel più grande (corrispondente all'attuale cappella della crociera di sinistra). Solo alcuni quadri sulle pareti adornavano l'edificio religioso.

   Agli inizi dell'800 la chiesa si dilata lateralmente con l'aggiunta di due navate laterali nelle quali si proiettano due altari per parte (1802). La tribuna preesistente viene ridotta in profondità per accogliere due cantorie e l'organo (precedentemente posizionato sulla controfacciata) e per sopraelevare il presbiterio sul quale viene trasferito l'altare della Vergine. Nel 1937 tale conformazione viene ulteriormente modificata da Chiagich e Fregno. Infine il terzo altare alla destra della navata centrale viene completamente ricostruito con le dimensioni del corrispondente di sinistra in modo da ottenere un transetto simmetrico (1795). Lo schema planimetrico dell'impianto così ottenuto è a croce latina.

   L'attuale chiesa si sviluppa su tre navate con volte a botte separate da arcate a pieno centro con intradosso dipinto e sorrette da pilastri rivestiti con riquadri in marmo e capitello corinzio. Una cornice a diverse modanature e dentelli sottende la volta del soffitto e corre lungo tutti i quattro lati della chiesa, raccordando i diversi ambiti spaziali.

   Appena al di sotto della cornice due aperture circolari per lato: a destra costituiscono una presa di luce che si prolunga esternamente sul prospetto laterale, a sinistra sono aperture, con griglia in ferro battuto, comunicanti direttamente con la sala denominata coro degli ammalatidell'antico monastero, che consentiva ai monaci e agli ammalati di assistere alle funzioni religiose.

   Lo spazio delle navate laterali è ritmato dalla presenza di quattro altari, due per parte, dedicati rispettivamente a S. Corrado Confalonieri, a S. Antonio Abate, all'Ascensione e a S. Francesco d'Assisi. Prima di immettersi nel transetto, in corrispondenza del tratto terminale delle navate laterali e subito oltre i due altari, due aperture collegano il Santuario a destra direttamente verso l'esterno e a sinistra alla Cappella del Bagno. Segnano la presenza di questi due percorsi alternativi due aperture allineate nelle pareti della navata con al di sopra un'iscrizione che commemora (a destra) il trasferimento del sacro Simulacro all'altare della Cappella della Madonna, compiuto il 16 maggio 1579 e (a sinistra) la consacrazione della basilica dedicata alla Natività di Maria avvenuta il 23 settembre 1584. Altre iscrizioni sono poste nella navata centrale sui pilastri dai quali si impostano gli archi della prima e seconda arcata: rispettivamente a destra a ricordo delle ripetute visite di papa Giovanni XXIII e di papa Giovanni Paolo i, quando Angelo Roncalli e Albino Luciani erano patriarchi di Venezia; a sinistra a memoria dell'intervento del Chiagich.
Due arcate a pieno centro, di dimensioni maggiori delle precedenti, individuano l'estensione del transetto. Volte a crociera delimitano lo spazio delle cappelle e del transetto dedicate a S. Antonio e a S. Giovanni Battista. Nella cappella di S. Antonio un'apertura architravata conduce alla attigua cappella funeraria dell'abate Celestino Colombo (1874 - 1935), fino al 1935 sede della sagrestia, con l'occasione spostata sull'altro lato della chiesa alla sinistra della tribuna. Al di sopra dell'accesso l'iscrizione dipinta ricorda le figure di alcuni illustri cittadini di Lendinara (Sabini e Bellini).

   Un grande arco trionfale sorretto da pilastri con capitello corinzio introduce al presbiterio composto da tribuna e altare maggiore. In corrispondenza della chiave dell'arco della volta la scritta dorata a grandi caratteri «Lendinariensum Thesaurus».

   lo spazio racchiuso entro un colonnato in marmo e pilastri è sormontato da una cupola con pennacchi. Conclude l'arca sacrale, l'abside con catino affrescato, sede dell'altare maggiore.

   Il presbiterio si eleva su due livelli: mediante due gradini si accede alla tribuna, una volta chiusa da cancelletto, delimitata da una pregevole balaustra marmorea, di stampo classico, in marmo di Carrara con intarsi in rosso di Francia; altri cinque gradini di broccatello di Verona conducono all'altare maggiore. L'attuale abside risulta notevolmente ridotta nelle dimensioni in seguito all'intervento promosso da don Romualdo Zilianti nel 1937. Intorno al presbiterio venne realizzato uno spazio accessibile al pubblico per venerare l'effige della Madonna del Pilastrello (precedentemente posta sull'altare maggiore) che venne ora collocata sulla parete in fondo dell'abside. Per accedervi vennero costruite due rampe di scale ai lati del presbiterio.

   Tutta la superficie pavimentale della Basilica originariamente in lastre di marmo bianco e rosso di Verona fu rifatta nel maggio del 1911, ad opera della ditta Scarante di Pietrasanta di Carrara.

   Alla sinistra della navata principale si erge il pulpito in marmo di Pietrasanta con inserti in breccia medicea, a cui si accede mediante una elegante scalinata dello stesso materiale, opera di Tullio Viti di Pietrasanta del 1942. Di notevole pregio anche il baldacchino in legno intagliato magistralmente da Tancredi Bolzani di Gaiba (1942), poi trasferito negli ambienti del convento.

   Numerosi sono gli oggetti d'arte conservati all'interno della chiesa tra i quali sono di pregevole fattura gli angeli con cornucopia dorata che sostengono cero e lampada, realizzati da Gaetano Baseggio nell'800.

   L'organo, inizialmente posto sulla controfacciata, venne sostituito nel 1926 da un altro a tre manuali a cura di Giuseppe Malvestio di Padova. Attualmente è ubicato a destra della tribuna.
 
Anche i soffitti della chiesa furono oggetto di ripetute trasformazioni. Nel 1794 la municipalità di Lendinara affidò l'incarico all'architetto e pittore Flaminio Minozzi (1735 - 1817) della scuola bolognese, delle decorazioni pittoriche della nuova basilica. Tali affreschi furono integralmente sostituiti tra il 1895 e il 1905 da altre pitture a fresco eseguite da Giovanni Battista Baldi delle quali rimane unicamente l'affresco della cupola della crociera sinistra dedicata a S. Giovanni Battista. la superficie è suddivisa in otto settori entro i quali, come anche nei pennacchi, ci sono scene incorniciate in riquadri polilobati. L'intervento ultimo risale al 1937 quando l'abate Zilianti incarica Giuseppe Chiacigh (1895 - 1967) di eseguire la decorazione pittorica della Basilica. I lavori iniziarono nel settembre del 1938 e terminarono nel settembre del 1942.

   Il Chiacigh si ispirò ai miracoli della Vergine del Pilastrello quale iconografia degli affreschi, impegnando in alcuni casi i medesimi soggetti delle tele di Angelo Trevisani.

   Nella cupola della cappella di S. Antonio, interamente a chiaroscuro, sono rappresentate le Quattro virtù Cardinali (Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza) raffigurate alate, che si stagliano per la plasticità delle forme e per il forte contrasto dei toni dal fondo luminoso delle nicchie entro cui sono poste. Singolare è la rappresentazione in prospettiva della lanterna al centro della cupola che trasporta virtualmente l'osservatore oltre lo spazio reale della cappella verso un'ideale fonte luminosa, dalla quale discendono con leggiadria due cherubini.

   L'apparato decorativo delle navate minori sviluppa il tema degli angeli recanti simboli araldici e liturgici racchiusi entro cornici particolarmente mosse ed ornate con conchiglie, volute e putti. Particolare il pannello posto in corrispondenza della seconda volta della navata destra nel quale l'angelo ostenta i simboli episcopali del guanto e dell'anello ed immediatamente al di sotto una figura femminile rovesciata che sostiene uno stemma araldico.

   Nella volta della navata centrale due estesi pannelli ai lati riproducono a destra La liberazione della città dalla peste (1630) e La liberazione dalla peste degli animali(1748) e a sinistra Il miracolo della preservazione di Lendinara dalla rotta dell'Adige; in sommità Il Sacro Simulacro che riceve forza taumaturgica da un raggio di luce che parte dalla Vergine in gloria.

   La raffigurazione pittorica è composita: l'episodio centrale che sviluppa con forme e linee sinuose, in cui le movenze e le gestualità dei soggetti sono rallentate in quanto espressione dell'assenza della temporalità e dell'alea celestiale proprie della spiritualità divina, è tutto compresso, quasi schiacciato dall'irrompere della furia emotiva e dolorante della folla che lo circonda, agitata dal terrore e tesa «in disperate invocazioni di salvezza» (Zerbini, 1942, p. 87).
Il pannello centrale raffigura una spessa coltre di nubi densa e minacciosa all'avvicinarsi dei pannelli laterali, dove si svolgono delle scene terrene, più diradata e luminosa verso il centro dove improvvisamente si apre uno squarcio nella volta celeste dal quale appare in tutta la sua luminosità la Vergine Maria con in braccio il Bambino. All'interno dello squarcio si intravvede la luce divina i cui raggi dipartono dalla Vergine e si irradiano nell'aere, dove aleggiano evanescenti angeli e cherubini. L'allegoria è incentrata nel raggio luminoso emesso dalla mano destra di Maria che infonde forza taumaturgica al suo simulacro, il «Lendinariensium Thesaurus», mentre un angelo discende dall'alto per incoronarlo.

   Nel pannello di destra, raffigurante il miracolo della preservazione dalla peste del 1630, domina lo spirito della morte e della sofferenza umana espresso mediante il particolare del candido lenzuolo che occupa la maggior parte della scena, mentre una folla gemente arranca sotto il peso dei cadaveri.

   Nel pannello di sinistra l'irrompere del fiume Adige è rappresentato simbolicamente dalla figura mitologica di Tritone, al di sopra del quale si trova il Vescovo che affida le sorti della popolazione alla Madonna. Tutto intorno la folla attende il proprio destino sotto l'infuriare della tempesta. Il Chiacigh potenzia l'espressività dell'episodio utilizzando cromie audaci come il verde del fiume e la rossa tenda che si leva alle spalle del Vescovo.

   Nella controfacciata un gruppo di malati, sofferenti e soldati in uniforme di epoche diverse, i cui sguardi sono rivolti alla Vergine in un ultimo gesto di invocazione, sono sorretti e accompagnati spiritualmente da un olivetano, la cui candida tunica risalta nella cupità dei toni degli altri soggetti.

   Al di sopra del portale d'ingresso una lapide in marmo con angeli, opera di Graziano Spazzi, reca l'effigie di riconoscenza per la preservazione dall'inondazione del fiume Adige nel 1882.

   Gli affreschi del catino absidale e della cupola che sovrasta il presbiterio rappresentano rispettivamente la Natività della Madonna e L'incoronazione di Maria, primo e ultimo mistero mariano.

   Al centro della cupola da uno squarcio nel cielo denso di nubi appare l'immagine di Dio con in una mano la corona e nell'altra il mondo e a destra il Signore con la croce della sofferenza sulla spalla; immediatamente al di sotto, distesa su un lembo di nubi sorretto da angeli, l'immagine eterea della Vergine in attesa dell'incoronazione. Intorno aleggiano beati diversi angeli. In contemplazione, estasiati dall'immagine divina S. Benedetto, ilBeato Bernardo Tolomei e S. Francesca Romana.

   Nei pennacchi della cupola sono raffigurati i simboli dei quattro Evangelisti.

   La rappresentazione della Natività nel catino dell'abside è la più densa dal punto di vista iconografico. La scena di svolge sulla sommità di una scalea con la Trinità, posta all'interno di un'ideale lanterna, che illumina e benedice dall'alto l'evento miracoloso. L'alto basamento in bassorilievo su cui poggiano i personaggi dell'episodio principale richiama un altro simbolo legato alla Natività: il peccato di Adamo ed Eva.

   L'artista ha dipinto in chiaroscuro queste immagini per rafforzarne il significato religioso, anche con il suggestivo dettaglio del serpente che, dopo la nascita di Maria, fugge per i gradini della scala alla destra dei Padri della Chiesa (vescovi e papi) che, ai piedi della scena in venerazione estatica, contemplano  «l'apparizione in terra dell'Immacolata Infante». Ai lati e sempre in chiaroscuro, in contrasto con la vivacità dei colori delle altre raffigurazioni, i quattro profeti IsaiaOseaMichea e Sofonia annunciatori dell'evento miracoloso.
 
La cappella è dedicata a S. Corrado Confalonieri. L'altare in marmo di Carrara è opera del milanese Paolo Sartorelli che lo installò nel 1802. Al di sopra della mensa marmorea la pala d'altare raffigurante S. Bartolomeo in gloriaS. Benedetto, il Beato Bernardo Tolomei e i committenti Bartolomeo eBattista Malmignati (olio su tela centinata, cm. 257 x 147) attribuita a Domenico Robusti, il Tintoretto (Venezia 1560 - 1635) e databile alla fine del '500. Fra le nuvole S. Bartolomeo con lo sguardo rivolto verso la luce divina proveniente dall'alto e nella mano destra la propria pelle scorticata e il coltello del martirio. L'angelo di destra ha tra le mani la mitria del Beato Bernardo Tolomei, raffigurato in basso nella veste dell'Ordine con le mani incrociate al petto e lo sguardo rivolto verso S. Benedetto. Sotto a mezzo busto i due committenti Bartolomeo e Battista Malmignati.

   Le statue raffiguranti probabilmente S. Carlo Borromeo e S. Francesco di Sales, laterali alla splendida tela, sono opera del milanese Antonio Spazzi, della scuola del veronese Zoppi (1804).
 
L'altare marmoreo è anche in questo caso del Sartorelli (1802). La pala d'altare rappresenta S. Antonio Abate che visita S. Paolo l'eremita (olio su tela centinata, cm. 256 x 146), opera del 17943 di Tommaso Sciacca (Mazara del Vallo 1734 - Lendinara 1795). Il dipinto venne commissionato allo Sciacca dal poeta lendinarese Giovan Battista Conti per farne dono al Santuario insieme alla tela attualmente posta sul secondo altare di sinistra. L'opera raffigurante S. Antonio Abate che «conversa con S. Paolo l'eremita in tunica bianca, seduto e con il crocefisso in mano. In alto, su un ramo, sta il corvo che ha nel becco il pane di cui per quarant'anni si nutrì l'eremita» (Brandolese, 1990, pag. 197).

   Le statue in marmo di Carrara, laterali alla pala d'altare rappresentano S. Sebastiano e S. Lucia e sono opera dello scultore Tommaso Bonazza che le realizzò agli inizi dell'800.
Al di sotto della mensa marmorea, entro un'urna vetrata, sono deposte le reliquie del martire S. Emante (sec. III) prelevate dalle catacombe di S. Callisto il 26 marzo 1820 e donate a don Francesco Antonio Baccari il 5 febbraio 1822 dal vescovo Giuseppe Bartolomeo Menocchio, dell'ordine degli Eremiti di S. Agostino. Lo stesso Baccari ne fece dono al Santuario il 10 agosto 1823, dopo averle fatte rivestire. Nel 1937 S. Emante venne plasmato nella cera. Sempre all'interno dell'urna è posta l'ampolla di vetro contenente il sangue coagulato del Santo e una pietra sepolcrale.

   Al termine della navata, prima di immettersi nella cappella destra del presbiterio, si apre un'apertura che conduce all'esterno della Basilica; in sommità un'iscrizione ricorda che nel fondo di Giovanni Borezzo nel 1509 venne ritrovato il Simulacro ed in seguito eretta la chiesa (1579).
 
L'altare, in marmo di Carrara con intarsi di marmo verde di Verale, venne posto in opera alla fine del 1808, insieme al corrispondente della cappella della crociera sinistra. Gli altari furono acquistati nello stesso anno dal Baccari dal Dipartimento del Brenta - Regno d'Italia provenienti dalla chiesa dei Padri Conventuali di S. Francesco di Este.
La pala raffigurante S. Antonio da Padova con il Bambino Gesù (olio su tela centinata, cm. 257 x 147), è opera di Tommaso Sciacca (1794). Anche quest'opera è stata eseguita su commissione del conte Giovan Battista Conti.

   La tela raffigura  «S. Antonio da Padova con il saio francescano, a braccia aperte nell'atto di accogliere il Bambino Gesù, posto su una nuvola davanti a lui, sopra l'altare. Sul pavimento, sono sparsi gli attributi del Santo: il libro e il giglio, simbolo di castità» (Brandolese, 1990, pag. 195).

   Sulle pareti laterali della cappella sono poste due tele di Angelo Trevisanirispettivamente Il miracolo dell'acqua diventata sangue (olio su tela, cm. 345 x 178) e La giovane Rigo è resa invisibile a giovani malintenzionati (olio su tela, cm. 302 x 177).
Nel primo dipinto una figura maschile con copricapo rosso e fascia nera sovrintende i lavori eseguiti da quattro muratori posti «attorno a una buca di calce sopra la quale per spegnerla un operaio con un secchio sta versando l'acqua che diventa color sangue. L'episodio risale alla primavera del 1576» (Brandolese, 1990, pag. 149).
L'altra opera rievoca «l'episodio accaduto il 16 luglio del 1576 alla giovane Maria Rigo al centro, a mani giunte in atto di supplicare la Madonna per essere sottratta alle insidie di tre malintenzionati che le stanno attorno. La Madonna, dietro la giovane, si appresta a coprirla con un velo in modo da renderla invisibile» (Brandolese, 1990, pag. 150)
 
Nel 1935 muore l'abate Celestino Colombo e il suo successore Zilianti si prodiga per il trasporto della salma in Basilica, avvenuto con solenne celebrazione il 24 settembre 1936.

   Il luogo deputato per la nuova cappella è la vecchia sagrestia, ristrutturata nel 1936 per adeguarla alle nuove funzioni. Al di sopra della mensola della tomba la tavola con S. Pietro (olio su tavola, cm. 145 x 39), attribuita al lendinarese Sebastiano Filippi o alla bottega di Giovanni Luteri detto Dosso Dossi (Ferrara c.a. 1479 - c.a. 1542). Compiuta intorno al 1525 raffigura «S. Pietro, in veste azzurra e manto rosso che tiene in mano due chiavi, una per il paradiso e l'altra per l'inferno» (Brandolese, 1990, pag. 83).

   La storia di questa tela è singolare ed è legata a quella del S. Paolo, conservato presso la Pinacoteca dei Concordi di Rovigo. Nel 1820 Paolo Battizocco, estimatore d'arte, in visita alla chiesa di Cavazzana vide che le due tavole impiegate da alcuni muratori per fare calce erano le stesse costituenti le portelle dell'organo della chiesa. Una volta acquistate vendette il S. Pietro a don Giacomo Pietrobelli di Lendinara che lo donò al Santuario nel 1831, ed il S. Paolo al nobile Nicolò Casalini di Rovigo.

   Le vicende critiche che hanno portato ad attribuire l'opera alla bottega del Dosso Dossi invece che a Sebastiano del Piombo o a Sebastiano Filippi da Lendinara sono assai complesse. La qualità pittorica della tavola individua i caratteri propri della pittura ferrarese del Dossi. Queste due opere inoltre si ritengono, per le dimensioni, portelle laterali di un polittico smembrato.
Nell'altare della Cappella dedicata all'abate Celestino è posta la tela Madonna con il Bambino e Santi (olio su tela, cm. 100 x 67). «Nel registro superiore domina il Padre Eterno a braccia aperte, con la colomba dello Spirito Santo sul petto e, a destra, tre cherubini. In primo piano sono la Madonna in veste rossa e manto azzurro, che sorregge il Bambino Gesù inginocchiato su un giaciglio ricoperto di drappi bianchi a mani giunte e con lo sguardo rivolto al Padre Eterno; a sinistra, S. Giovannino con il drappo rosso, la croce pastorale e, vicino, l'agnello, suoi tradizionali attributi; alle spalle della Madonna, S. Paolo con la croce e la spada in mano. Il dipinto è racchiuso in una cornice dorata e decorata con una serie di quarantasei teche, di diverse forme, contenenti reliquie dei Santi» (Brandolese, pag. 201).
Una fessura nella parete verso l'esterno della chiesa dà luce ad una meridiana che fa culminare il sole a mezzogiorno proprio sulla tomba dell'abate Celestino.

   Fissate al muro due lapidi, già sepolcrali a pavimento, recanti le scritte «Melchior Sabini / turri.Templi hui. / ae. p. extrus. / sibi suisq./ P. / A. MDCCXLIX» e «Familiae Locatelli / et haer». Alla destra della tomba funeraria e dell'accesso alla scala interna del campanile un piccolo altare in marmo con la soprastante pala che raffigura Il Padre Eterno, la Madonna con il Bambino, S. Giovannino e S. Giuseppe. E' racchiusa entro una splendida cornice in legno, indorata da Novello Soà, ed arricchita da 46 teche contenenti le reliquie di alcuni santi. L'opera, attribuita a Tommaso Sciacca, è datata intorno al 1792.
 
L'opera scultorea dell'altare maggiore venne realizzata tra il 1743 e il 1745 per iniziativa dell'abate Giacomo Maria Pietrobelli. Già dal 1740 il vescovo aveva autorizzato i nobili Natale Leopardi e Gaetano Petrobelli a raccogliere elemosine tra i fedeli per la costruzione del nuovo altare, dedicato alla Miracolosa Immagine. L'altare fu terminato nel 1745 e collocato sul lato sinistro del transetto nella cappella dedicata alla Madonna, per l'occasione arricchita di stucchi, affreschi ed ori.

   Nello stesso anno venne riposto il sacro Simulacro nella nicchia ad esso destinata. L'intera struttura venne trasportata al centro del presbiterio nel 1795 divenendo l'altare maggiore della Basilica mariana come da progetto del Baccari. Ulteriori modifiche, apportate nel 1942, optarono per un percorso spirituale alternativo più intimo ed evocativo, ricavando attorno al presbiterio un camminamento mediante due rampe di scale convergenti al cento della parete curva sulla quale è stato posto il tempietto della Gloria Marmorea, contenente il simulacro della Madonna Nera.
L'altare marmoreo si eleva su una doppia gradinata in broccatello di Verona ed è costituito da una raffinata mensa in marmo di Carrara con intarsi in rosso di Francia e rivestimento in bardiglio di Genova. Al di sopra si elevano quattro monolitiche e slanciate colonne in marmo rosso di Francia che incorniciano la nicchia e sorreggono, mediante graziosi capitelli corinzi, una cimasa ed un attico di ordine composito. Ai lati due angeli in marmo inginocchiati con in mano il turibolo nell'atto di incensare, e lo sguardo rivolto verso il centro dell'attico dove tra testine alate stanno due angioletti che sorreggono l'aureo globo, dal quale si irradiano raggi dorati sul fondo in bardiglio. In sommità un putto alato a braccia aperte, nell'atto di volare, tiene nella mano sinistra un cartiglio recante la scritta«ALTARE PRIVILEGIATO».

   Ai lati della mensa si ergono su due alte colonne due raffinate sculture in marmo raffiguranti, rispettivamente a destra L'Umiltà, che con il capo coperto e lo sguardo chino tiene una corona regale sotto il piede e stringe al petto un candido agnello, e a sinistra La Verginità, vestita con una lunga tonaca e un a clamide mentre tra le mani tiene il nodo del cingolo, che le fa aderire ai fianchi le vesti.

   La Gloria Marmorea estrapolata dall'altare ed arretrata sulla parete in fondo, non è più immediatamente visibile se non da una posizione ravvicinata, perdendo di fatto la valenza di elemento decorativo catalizzatore per il visitatore. Nella nicchia è riposta la custodia del Simulacro sorretta da un angelo inginocchiato che si staglia in primo piano sulla sinistra dal fondo in bardiglio. Dall'immagine sacra dipartono raggi marmorei dorati eseguiti in rilievo. Tra soavi cherubini e putti che emergono da viluppi di nuvole, risaltano due angeli il primo dei quali, alla destra, trattiene i bordi superiori della custodia, mentre il secondo in alto a sinistra sorregge la corona argentata. La paternità dei questa splendida opera è attribuita finora alla mano di Giovanni Marchiori, artista bellunese operante a Venezia e nella vicina Fratta Polesine, ma l'assenza di un riferimento al Marchiori nel contratto per l'esecuzione dell'opera del 1743 e di un rapporto di collaborazione con il tagliapietra Canziani rendono incerta l'attribuzione. In attesa di nuovi approfondimenti sull'argomento si propone anche Giovanni Maria Morlaiter quale probabile esecutore dell'intervento per le affinità stilistiche e le analogie con alcune sue opere.
 
Sopra l'altare, opera del Sartorelli (1802), due state in marmo di Carrara, il cui esecutore non è conosciuto, fiancheggiano la pala d'altare e raffigurano rispettivamente S. Domenico e S. Gaetano. La tela venne collocata nel 1795 a sostituzione di un'opera del lendinarese Mosca. Fu don Giacomo Baccari ad acquistarla per il centenario dell'incoronazione della Vergine del Pilastrello, insieme ad altri dipinti. L'opera rappresenta S. Francesco visitato da un angelo, tradizionalmente attribuita al grande pittore veneziano Giovanbattista Piazzetta e solo recentemente riferita al suo allievo e stretto collaboratore Giuseppe Angeli (Venezia 1712 - 1798).

   In essa è raffigurato «S. Francesco a braccia aperte e con lo sguardo estasiato, nel momento di ricevere le stimmate dall'angelo, che gli tocca con una mano il petto. Entrambi sono colpiti dalla chiara luce divina, mentre S. Elia, in basso a destra, si profila emergendo come uno spettro dal fondo scuro; al centro il crocifisso e il teschio» (Bagatin - Pizzamano - Rigobello, 1992, pag. 276).

   Il S. Francesco lendinarese si discosta dalla tradizionale raffigurazione che presenta il santo in estasi sostenuto da un angelo. I toni cromatici impiegati sono molto cupi, con la sola eccezione dell'angelo, dalle ali dispiegate luminosissime, e dal volto del santo illuminato dalla luce divina.
 
Superato il portale di accesso alla Cappella del Bagno, che reca l'iscrizione «Vade et lavate et recipiet sanitatem / caro tua atque mundaberis», ci troviamo nella cappella dedicata all'Ascensione. La tela, sull'altare marmoreo di Paolo Sartorelli (1802), ritrae l'Ascensione di Cristo (olio su tela, cm. 245 x 121) dipinta da Paolo Caliari detto ilVeronese (Verona 1528 - Venezia 1588) intorno al 1580.

   Il Cristo ascende al cielo circondato da angeli e cherubini. Nella parte inferiore gli apostoli lo osservano con stupore. In basso è ritratto, quasi fosse fuori campo, il committente a mezzo busto che indica l'avvenimento. Il committente è il cavaliere Vincenzo Malmignati, promotore della costruzione del Santuario, che avrebbe assegnato l'incarico all'artista nel 1579. L'uso dei colori accesi, la cui luminosità viene accentuata dalla luce proveniente dalla destra, attenuati attraverso l'uso del chiaroscuro - tipico del periodo più tardo dell'attività dell'artista - e l'ideazione dell'albero inclinato a sinistra (che crea instabilità alla scena supportata dalle espressioni stupite e dalle movenze degli apostoli) sono tipiche del Paolo Veronese del periodo controriformistico.

   Le statue in marmo di Carrara laterali alla pala d'altare sono state scolpite dal fiorentino David Sollazzini nel 1940. Raffigurano alla sinistra il Beato Bernardo Tolomei e alla destra S. Francesca Romana.

   Al di sotto della mensa una nicchia in vetro custodisce l'urna contenente le reliquie del corpo di S. Vincenzo, giovane soldato romano, prelevate dalle catacombe di Priscilla a Roma il 17 aprile 1806. Furono donate a don Francesco Antonio Baccari dal Vicario del Papa, il Cardinale Giulio de Somalia, il 28 aprile 1818 alla condizione che venissero esposte alla venerazione dei fedeli in una chiesa della città di Lendinara. Nel 1823 le reliquie vennero donate al Santuario mariano.

   Come per S. Emante anche le reliquie di S. Vincenzo furono rivestite e plasmate nella cera ad opera delle Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento a Monza nel 1941.

   Nel pilastro tra le due cappelle l'iscrizione «D.O.M. / Divoque Antonio Patavino / Com. Aut. Presb. eiusque nepotes / Jo. Bapt.et Sil. fratres nepotes / jure patronatus / A.D. MDCCLXXXV».
 
Fino al 1795 fu cappella della Madonna quando l'altare marmoreo venne traslato nel presbiterio. Al suo posto fu collocato un altro altare in marmo di Carrara con intarsi in marmo verde di Verale proveniente, congiuntamente a quello della crociera di destra dedicato a S. Antonio, dalla chiesa di S. Francesco d'Este (1808).

   La cappella attualmente è dedicata a S. Giovanni Battista. La pala dell'altare ritrae la scena del Battesimo di Cristo (olio su tela centinata, cm. 206 x 135) del pittore veronese Francesco Montemezzano (Verona 1540? - Venezia dopo il 1602), discepolo di Paolo Veronese. Il dipinto raffigura il Cristo mentre riceve il battesimo da S. Giovanni Battista nell'atto di versare l'acqua sul suo capo, illuminati dalla luce dello Spirito Santo sotto forma della tradizionale colomba. Ai piedi del discepolo l'agnello sacrificale. L'ispirazione dell'opera deriva prevalentemente dal repertorio figurativo del Veronese. Gli storici e critici d'arte datano l'opera in modo differente ma si suppone più realistico farla risalire intorno al 1581, periodo di massima adesione del Montemezzano alle idee e alle concezioni plastiche del Veronese.
 
La cupola della crociera è ornata dalle pitture a fresco di Giovanni Battista Baldi.
 
Ai lati dell'altare, fino a poco tempo fa, erano poste due magnifiche tele di Angelo Trevisani, ora collocate nella parete sinistra della rampa di scala parallela alla tribuna che conduce al Sacro Simulacro. Raffigurano due eventi miracolosi della Madonna. La giovane Francesca Bimbato, annegata nel Canalbianco, viene ritrovata viva per intercessione della Vergine del Pilastrello, il 19 luglio 1613 (olio su tela, cm. 320 x 152) e La giovane Lucia Zante resuscitata durante il suo funerale (olio su tela, cm. 320 x 152).
 
La prima tela illustra un miracolo descritto dall'abate Marco da Lendinara e raffigurante «sulla riva del fiume, a destra, una vecchia e un giovane con le mani giunte, che ringraziano la Madonna per il ritrovamento della giovane Francesca, scomparsa nelle acque del Canalbianco. Nella zona superiore sta la Madonna con il bambino, seduta su un trono di nuvole che, su indicazione dell'angelo a destra, interviene a salvare la giovane, immersa nelle acque. A sinistra, due giovani su una barca si apprestano a trarre in salvo la giovane miracolata. Sulla riva del fiume si vedono un cesto con panni e una cassetta; in alto a destra, due cherubini» (Brandolese, 1990, pag. 149-50).
 
La seconda tela «illustra il miracolo della Madonna che riporta in vita Lucia Zante durante il funerale celebrato l'11 febbraio 1593. La giovane è a sinistra, seduta dentro il sarcofago, a mani giunte e con lo sguardo rivolto verso la Madonna che le appare in alto, fra due angeli e due cherubini. Alle spalle della resuscitata, un sacerdote e un chierichetto con la croce in mano; a destra in primo piano, una donna a braccia aperte e due giovani; davanti al sarcofago, a terra, l'acquasantiera» (Brandolese, 1990, pag. 149).
 
Sulla parete destra della crociera di sinistra un'ampia apertura architravata immette nella nuova sagrestia, il cui spazio venne organizzato nel 1936 in occasione della costituenda cappella funeraria dell'abate Colombo. Al di sopra dell'accesso un'iscrizione dipinta recante la scritta«Simulacrum B.M.V. / Senatus Veneti permis. /et / Arnaldi Speroni Ep. Adr. / decreto / ex hac aedicula est / ad altare majus / traslatum / III idus maii / A. MDCCVC». L'ambiente è strutturato su due diversi ambiti spaziali: due colonne ioniche e lesene parietali sostengono i soffitti e costituiscono diaframma separatore tra le due sale, la seconda delle quali elevata dalla superficie pavimentata di un gradino in marmo rosso di Verona. Le sale risultano adorne alle pareti di numerose tele di pregevole valore artistico. Appena entrati sulla parete destra si osserva l'opera S. Andrea Apostolo (olio su tela, cm. 120 x 86), inserita entro una splendida cornice marmorea di buon modellato, con un cartiglio in marmo capovolto, posto sotto il listello inferiore, recante l'iscrizione «DEI GLORIAM EREXIT 1739» La tela, della metà del XVII secolo, è attribuita tradizionalmente a Jusepe De Ribera detto lo Spagnoletto (Jativa de Valencia 1591 c. - Napoli 1652) per i numerosi dettagli pittorici riscontrabili in altre sue opere.

   La raffigurazione esalta il volto e la figura del santo mediante il vivo contrasto luminoso che lo fa emergere dal fondo scuro, espressione tipica dell'ambiente caravaggesco.

   «Egli appoggia la testa sulla mano e il gomito sul libro posato sopra il tavolo. Lo sguardo intenso è volto verso l'osservatore» (Brandolese, 1990, pag. 133). Destinato ad abbellire la sagrestia fin dal 1849-50 su iniziativa di don Serafino Pietrobelli, è stato di recente restaurato.
 
Oltre si ammirano le tele di grandi dimensioni di Angelo Trevisani (Venezia 1669 - 1753 c.) La Vergine e S. Giovanni intercedono per la rotta dell'Adige (olio su tela, cm. 383 x 308) del secondo-terzo decennio del '700 commissionata insieme ad altre cinque tele dall'abate Giacomo Petrobelli in occasione del centenario della liberazione dalla peste (1730). Le sei tele costituiscono un ciclo pittorico a valenza celebrativa il cui apparato iconografico è desunto dalla Descrizione dei miracoli della Madonna del Pilastrello di don Barnaba Riccobuono (1584) e di altri aggiunti nel 1695 da don Marco da Lendinara.

   Il dipinto raffigura «sul fondo il fiume Adige e due personaggi sulla riva, aggrappati a un tronco; in primo piano a sinistra un gruppo di uomini con attrezzi da lavoro; al centro, un uomo a cavallo vestito di rosso e azzurro, con cappello piumato e baionetta, che indica lo straripamento delle acque del fiume; in alto a destra, S. Giovanni inginocchiato sulle nuvole, con la veste rossa e la croce pastorale in mano, che indica alla Madonna di intercedere per la rotta del fiume» (Brandolese, 1990, pag. 143). La particolarità di questa tela si ravvisa nei toni molto scuri impiegati per le figure in primo piano che, contrastando nettamente dal luminosissimo fondo del fiume, assumono un ruolo espressivo privilegiato.
 
Segue la tela del XVII sec. raffigurante Il Beato Bernardo Tolomei che riceve dall'angelo la Regola e dalla Vergine con il Bambino, lo stemma (olio su tela, cm. 120 x 88) commissionata dall'abate Michele Cattaneo nel 1659. L'opera è l'esatto corrispondente del S. Andrea Apostolo avendo le stesse dimensioni ed identica cornice marmorea.

   «Nel dipinto è rappresentato il Beato Bernardo Tolomei, con l'abito bianco dell'Ordine, in ginocchio nell'atto di ricevere la Regola di S. Benedetto dall'angelo posto in alto a sinistra. Sopra il Beato, su una nuvola, sta la Madonna con il Bambino, con in mano il simbolo con i tre monti della congregazione fondata dal Beato. In alto a destra si vedono un angelo e due cherubini; in basso a sinistra, per terra, la mitria del Beato; sullo sfondo un paesaggio con un castello (forse la rocca di Cento)» (Brandolese, 1990, pag. 135). La tela è una fedele replica dell'opera eseguita nel 1661 da Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento 1591 - Bologna 1666) per la chiesa di S. Michele in Bosco di Bologna, quest'ultima andata distrutta in un incendio nel Museo di Bordeaux in Francia. La paternità dell'opera è assegnata in alcuni casi al Guercino della maturità, in altri invece ad un suo allievo o aiutante di bottega, certamente esecutore raffinato e sapiente conoscitore del linguaggio pittorico del maestro.
 
Sulla parete di fronte, tra le due finestre, un'altra opera del ciclo pittorico di Angelo Trevisani La Madonna salva Lendinara dalla pestilenza nel 1630 (olio su tela, cm. 388 x 308), nella quale «in primo piano,a sinistra, si vede un gruppo di appestati; sullo sfondo la città di Lendinara e, sulla riva del fiume, una donna che lava i panni e un personaggio. In primo piano, a destra, un uomo nudo, allegoria del fiume Adige, con una corona di fiori in testa e la mano destra appoggiata su una vanga. Dietro una donna, in veste rossa foderata di azzurro e velo sul capo, che sostiene con la mano destra lo stemma della città di Lendinara con le due torri sormontate, una dalla Madonna del Pilastrello con il Bambino e l'altra dal leone di S. Marco: è l'allegoria della città di Lendinara che, inginocchiata, volge lo sguardo alla Madonna in alto, seduta su un trono di nubi con il Bambino in braccio. Alle spalle un gruppo di devoti; sotto a destra un cane» (Brandolese, 1990, pag. 143). Particolare rappresentativo dell'iconografia del dipinto, tratta dalla prefazione dell'abate Marco da Lendinara ai Miracoli del Riccobono, è l'ascesa al cielo della donna consunta dal morbo della peste, sul registro in alto a sinistra, che esprime con forza la drammaticità dell'evento.
 
Sulla terza parete della prima sala, corrispondente all'ingresso, in alto tre piccoli quadri raffiguranti, partendo da sinistra, S. Francesca Romana (olio su tela, cm. 98 x 74), la Madonna con il Bambino tra due Angeli (olio su tela, cm. 98 x 74) e il Beato Bernardo Tolomei riceve la Regola della Madonna con il Bambino e lo stemma dell'angelo (olio su tela, cm. 120 x 88).
 
Il primo quadro è opera di Antonio Cavallucci (Sermoneta 1736 c. - 1826) e di Giovanni Micocchi (1752 - 1795): la rappresentazione è stata eseguita per la maggior parte da Micocchi sotto la guida del suo maestro Cavallucci che la concluse con l'esecuzione dei volti della santa e dell'angelo. In esso «S. Francesca Romana in abito scuro e mantello bianco della congregazione benedettina di Monte Oliveto, è raffigurata nell'atto di declamare un passo tratto dai Salmi sul libro aperto che tiene in mano. Al suo fianco vi è un angelo in veste bianca e rossa che aiuta la santa a reggere il libro» (Brandolese, 1990, pag. 185). La tela, insieme ad altre, proviene dalla collezione privata dell'abate Griffi che ne fece dono al Santuario probabilmente in occasione della sistemazione della cappella della Vergine del Pilastrello nel 1795. L'opera riflette la tendenza della cultura romana di fine settecento che riprende i modelli classici della tradizione secentesca romano-bolognese, recepita dagli insegnamenti del maestro Cavallucci.
 
Il secondo quadro, La Madonna con il Bambino tra due angeli, si ritiene eseguito nella prima metà del Cinquecento da un artista legato alla tradizione pittorica tardo quattrocentesca. L'autore potrebbe figurarsi con Francesco Vecellio (Pieve di Cadore 1475 c. - 1560), fratello maggiore di Tiziano, per l'analogia del volto della Madonna con quello ritratto nella pala di Monopoli.
 
Il terzo quadro, Il Beato Bernardo Tolomei riceve la Regola della Madonna con il Bambino e lo stemma dall'angelo, omologo del quadro di S. Francesca Romana, è attribuito ad Antonio Cavallucci e faceva parte della collezione dell'abate Griffi. Il dipinto si presume compiuto tra il 1787 e il 1793, coincidente con il periodo nel quale la decorazione pittorica delle opere compiute dall'artista riflettono morbidezza di linee ed espressività nei volti, tipica di Guido Reni. La raffigurazione vede il Beato Bernardo Tolomei in veste bianca che riceve il libro contenente la regola della fondazione dell'Ordine. Ai lati della Madonna un angelo impugna il pastorale del Beato e l'altro tiene tra le mani il simbolo della congregazione.
 
Superato il colonnato si accede nella seconda sala caratterizzata dalla presenza, sulla parete di fondo, di un altare marmoreo di buona composizione architettonica. Opera dello scultore e altarista veronese Giuseppe Schiavi venne realizzato nel 1775 quale altare della B. V. del Carmine per la chiesa dei SS. Vito, Modesto e Crescenzio di Cerea (Verona); acquistato dal Baccari nel 1790, venne trasportato a Lendinara e deposto nel locale adibito a sagrestia nel giugno del 1800.

   Al posto della pala d'altare una statua raffigurante S. Lorenzo. La scultura venne realizzata nel 1800 dal giovane milanese Antonio Spazzi.

   Alla destra dell'altare la tela con l'Allegoria della città di Lendinara con un pubblico rappresentante conosciuta anche come Glorificazione del podestà Ludovico Pisani (olio su tela, cm. 178 x 256)
 
L'opera risulta di difficile critica vedendosi gli autori in Andrea Celesti (Venezia 1637 - Toscolano 1712) o in Matteo Ghidoni detto dei Pitocchi (1626 c - 1689). Il "pubblico rappresentante che riceve omaggio dalla città di Lendinara" altri non sarebbe che Ludovico Pisani in atto di ricevere l'incarico di podestà della città, come si desume dallo stemma con il leone spaccato di azzurro e argento posto sulla colonna alle sue spalle, appartenente alla sua famiglia. La città di Lendinara in questa tela è raffigurata nelle vesti di una donna inginocchiata, la quale con un gesto di riverente sottomissione rende omaggio al futuro podestà. Nell'angolo a sinistra tre stemmi si riferiscono rispettivamente alla famiglia Petrobelli e ad altre famiglie locali. L'influenza naturalistica e l'intonazione cromatica cupa del fondo, rischiarata dall'incarnato chiaro quasi diafano dell'angelo e della donna, riflettono il linguaggio dei «tenebrosi».

   Ai lati della grande tela e analogamente sulla parete opposta quattro quadri di formato ovale rappresentano gli Evangelisti (1830 c.), opera del lendinarese Giovanni Baccari (1788 - 1862). Alla sinistra dell'altare, tra i due quadri ovali degli Evangelisti, il Miracolo della B.V. del Pilastrello preservata dal fuoco (olio su tela, cm. 133 x 256) del lendinarese Francesco Mosca, che per il Santuario esegue numerose tele a carattere devozionale su commissione dell'abate Giacomo Petrobelli dal 1731 al 1735 circa.
 
Sulle pareti laterali, al di sotto delle due grandi tele, due custodie in marmo rosso di Verona con inserti di rosso di Francia custodiscono le reliquie di diversi santi.
 
Il Bagno è il luogo dove nel Cinquecento accaddero i fatti miracolosi che portarono all'origine e alla crescita della devozione per la Madonna nera. Intorno alla fonte miracolosa fu scavato un pozzo, dal quale con una piccola canaletta si portò l'acqua a un bagno, chiuso da muro, per consentire agli ammalati di immergersi al riparo dagli sguardi.

   Le prime notizie sull'esistenza del "Bagno", da cui scaturiva la fonte miracolosa, ci sono fornite dal Riccobuono: «l'anno del Signore 1576 a noi fu l'ano del giubileo, ma quell'anno fu fatto un pozzo a quell'acqua miracolosa, con un canaletto, che portasse l'acqua in un altro loco cinto di mura, che si chiama il bagno della Madonna, et il pozzo della Madonna» (P. Pizzamano, 1992, pag. 287).

   L'ingresso rappresenta per il fedele un momento di purificazione, dove il pellegrino, già in armonia con Dio attraverso la preghiera, giunge, per intercessione della Madonna, alla remissione delle proprie colpe purificandosi con l'acqua della fonte miracolosa.

   Si accede al Bagno dalla navata sinistra della chiesa attraverso la porta situata tra il secondo altare e il transetto, entrando in un volume, di forma allungata, posto ortogonalmente alla chiesa e completamente indipendente dall'impianto spaziale della chiesa stessa.

   L'odierna composizione architettonica è quella voluta dal rettore e architetto don Giacomo Baccari che, contemporaneamente agli altri interventi all'interno del Santuario, fece riedificare il Bagno tra il 1816 e il 1818. Con l'intervento del Baccari l'accesso al Bagno è mediato dalla presenza di un atrio, elemento di filtro tra il luogo sacro del Santuario e il luogo della purificazione.

   L'atrio, in origine di forma allungata, è caratterizzato da alcuni elementi architettonici, quali gli stipiti della porta di accesso e le colonne che sostengono le arcate. Per quanto riguarda gli stipiti si tratta di paraste in pietra scolpite a bassorilievo che risalgono con ogni probabilità alla fase di trapasso tra il Medioevo e il Rinascimento; le loro decorazioni fanno riferimento agli stilemi della scuola lombarda. Quasi simmetricamente alla porta di ingresso al Bagno, un altro portale segna un accesso laterale della chiesa, posto sul fianco destro (in questo locale, entro un piccolo tabernacolo posto su un altare, c'è la raffigurazione di Maria Bambina, plasmata nella cera nel 1741 da Isabella Fornari, clarissa, abbadessa del monastero di Todi).
 
Sono probabilmente di recupero ed antiche anche le otto colonne di broccatello rosso di Verona, con capitelli decorati con motivi floreali di matrice estense, impostate su alti basamenti che organizzano spazialmente l'atrio del Bagno e ne sostengono le arcate e le volte.

   I due vani laterali dell'atrio sono stati arretrati nel 1922. Da un lato è ospitato ilPilastrello con la fonte miracolosa con la fonte miracolosa, dall'altro ci si collega al cortile interno del monastero. I finestroni e le porte in ferro battuto di questi vani sono stati realizzati nel 1928.

   Il Pilastrello in marmo finemente lavorato, posto nel vano a sinistra, racchiude quattro nocchie al cui interno, dalla bocca di quattro angeli, sgorga l'acqua della sorgente. E' stato disegnato dall'architetto Domenico Rupolo di Venezia e realizzato dallo scultore Policrono Carletti nel 1909. Ha sostituito la precedente fonte che dal 1818 consisteva in un solo blocco di rosso veronese. Il Carletti è anche l'autore della Madonna in bronzo del 1910 posta al di sopra del Pilastrello a coronamento della fonte miracolosa. Queste opere, in precedenza poste al centro della Cappella del Bagno di fronte alla vasca, furono qui spostate nel 1921 durante i lavori di restauro del Bagno realizzati per volontà di don Celestino Colombo.

   Sempre nell'atrio possiamo vedere una lapide del 1604 («Superba edificò già in Delfo e Delo/la Grecia moli eccelse et hor sepote/giacion tra sterpi e tra le spine involte/ma questa è eterna che fa strada al cielo/MDCIIII») e un'altra del 1977 con i nomi di tutti i rettori del Santuario ed il busto di don Giacomo Baccari.

   L'ingresso alla Cappella del Bagno avviene attraverso un arco sostenuto da due colonne tortili in broccatello di antica lavorazione decorate da stemmi in rilievo. Per la nuova sistemazione del Bagno don Baccari ideò un tempietto a tre navate, la cui tripartizione è attuata dalla presenza di 10 colonne di ordine composito che poggiano su piedistalli e che sostengono le arcate e le volte. Tali colonne, allineate a quelle presenti nell'atrio, allungano visivamente la prospettiva della Cappella del Bagno, così da prolungare il raggiungimento dell'elemento principale custodito nella Cappella: la vasca d'acqua miracolosa.

   La navata centrale della Cappella, ritmata dalle colonne, è scandita da volte a crociera con costoloni in rilievo in evidenza sullo sfondo scuro; le due navate laterali sono invece ripartite da spazi con piccole volte a botte con riquadri decorati. Le prime sei colonne sono di marmo bianco e nero, mentre le quattro successive, antiche, sono di una pietra grigia. In questo punto, dove la sequenza delle colonne presenta tale interruzione anche cromatica, è localizzato il Bagno ovvero una vasca a forma di ottagono, inizialmente costituita da lastroni di marmo di Verona e delimitata da sei gradini e da una cancellata di ferro battuto. E' evidente come la vasca ottagonale, contenente l'acqua miracolosa, sia riconducibile al rito battesimale che rappresenta la purificazione dai peccati. Nello stesso tempo il battesimo, come testimoniato dalle Sacre Scritture, si identifica anche con la morte e con la resurrezione, così come l'ottagono, nella simbologia numerologica di vari autori paleocristiani, rappresenta la salvezza e la rinascita.

   Nel 1909, in occasione del IV centenario della prima manifestazione della Madonna, il Bagno venne dotato di una vasca monolitica in marmo di Carrara disegnata dall'architetto Rupolo. Nel 1911 venne posto in opera il pavimento in marmo di Carrara, mentre nel 1929 si riverstirono in marmo le pareti del Bagno e vennero realizzati i quattro angeli di marmo che versano acqua nella vasca monolitica.

   Le dodici volte a botte delle navate laterali della Cappella riquadrano le dodici tele con iMiracoli della Madonna di Giovanni Baccari. Queste tele realizzate tra il 1855 e il 1862 sostituiscono i prodigi affrescati nel 1823 da Giovanni Fassini (che aveva decorato i chiaroscuro anche la volta della Cappella) che si erano rovinati a causa dell'umidità.

   I dipinti presenti nei riquadri laterali testimoniano i momenti principali collegati alla devozione verso la Madonna del Pilastrello. Essi raffigurano lungo la parete destra: l'Incoronazione della miracolosa immagine il XXV settembre MDCXCV; la Preservazione di Lendinara dalla peste (MDCXXX); il Trasporto della sacra immagine al tempio di Maria Vergine il XIV maggio MCLXXVII; la Fondazione del Tempio di Maria Vergine (MDLXXII); ilProdigio dell'acqua cangiata in color sanguigno nella erezione del primo capitello l'anno MCDLXX - VI; l'Invenzione del prodigioso simulacro della Maria Vergine avvenuta l'anno MDIX.

   Lungo le pareti della navata sinistra; La sacra immagine illesa dal fuoco il XXVIII luglio MDCCXXX; la Liberazione degli animali bovini dalla peste 1 dicembre MDCCXL - VIII; laDonzella prodigiosamente sottratta agli insidiatori (MDXCI); la Giovanetta con stupendo miracolo risuscitata da Maria Santissima nel MDXCIIBimbato Maria affogata nel Canal Bianco salvata dalla Beata Vergine il IX luglio MDXCII.

   La tavola di Adamo e la visione dell'Immacolata Concezione è invece del pittore Antonio Maria Nardi che la eseguì nel 1939.
 
La Cappella del Bagno è inoltre anche il luogo dei ringraziamenti per la bontà della Vergine. La memoria dell'antico capitello che ospitava la sacra immagine si concretizza nell'altare in marmo di Carrara intarsiato in rosso di Francia posto oltre la vasca del Bagno, nell'abside della cappella, incorniciato da quattro colonne, due delle quali in pietra grigia. Qui si venera l'immagine della Madonna circondata dagli ammalati.
 
Gli ex-voto sono le pubbliche testimonianze della potenza dei protettori celesti che i fedeli hanno portato dal Santuario mariano come ricordo imperituro della loro riconoscenza per le grazie ricevute dal Signore per mezzo dell'intercessione della Madonna.

   Il Santuario stesso è il primo vero ex-voto, in quanto voluto dalla comunità di Lendinara in onore della Vergine.

   Dopo l'erezione del Santuario numerose furono le donazioni di altari, suppellettili per il culto, immagini di metallo e cera; moltissime furono le raffigurazioni votive dipinte su tavola e poi su tela, così come moltissimi furono gli oggetti più svariati di valore ornamentale lasciati in segno di riconoscenza o di propiziazione.

   La prima solenne incoronazione della Vergine avvenuta nel 1695 rappresentò un ulteriore atto di devozione votiva della comunità di Lendinara, scampata ai pericoli della peste, alle inondazioni dell'Adige, ai terremoti. In tale occasione, poiché vennero apportate delle innovazioni all'interno del Santuario, furono tolte dalle pareti innumerevoli tavolette dipinte, grucce, bastoni, busti di legno, ritratti di gambe, cosce o altre membra risanate, fasce e bende, armi degli illesi da ferite, ciocche e trecce tagliate.

   I voti furono sostituiti dalle grandi tele del Celesti, del Mosca, del Trevisani, raffiguranti i principali prodigi attuatisi per intercessione della Madonna. Nel 1797, con l'arrivo degli eserciti giacobini, quasi tutta l'argenteria del Santuario venne requisita. Negli anni successivi la devozione dei fedeli e gli atti di ringraziamento ricostituirono un notevolissimo numero di ex-voto.

   Il Santuario e precisamente il Presbiterio che conserva il Sacro Simulacro e la Cappella del Bagno sono i luoghi dove vennero portati, conservati ed esposti gli ex-voto, quali quadri, quadri con cuori, cuori d'argento, oggetti d'oro come anelli, collane, preziosi vari, foto. Per quanto riguarda le 47 tavolette votive rimaste, queste trovarono una sistemazione definitiva nel maggio del 1977. Da allora si trovano sistemate in 4 bacheche, due delle quali, poste in verticale ai lati dell'altare di Maria Bambina.

   Le tavolette votive sono attestazione di grazie, rese pubbliche in via figurativa, mediante una narrazione semplice in cui vengono riportati dei brevi racconti riconducibili alla narrazione popolare. Nella tavoletta votiva l'episodio viene narrato senza una precisa sequenza temporale che andrebbe ripartita almeno in quattro fasi successive; l'accadimento, la preghiera di aiuto, l'intercessione celeste, la lieta soluzione. La figura oggetto della grazia è rappresentata in atto di richiesta e nello stesso tempo in atto di ringraziamento e la conclusione della vicenda è per lo più implicita. Nessuna delle tavolette della residua raccolta del Santuario lendinarese reca la firma dell'autore. Generalmente l'intero spazio pittorico è diviso in due parti: nella parte inferiore è raffigurato il mondo terreno, mentre nella parte superiore viene rappresentato il mondo soprannaturale. La Madonna, non sempre la Vergine del Pilastrello, è posta sulla parte superiore della raffigurazione, generalmente all'angolo sinistro. La separazione tra il divino e il fatto materiale è ottenuta mediante una corona di nubi che circondano, ma nello stesso tempo allontanano, le sacre figure dal luogo dell'accadimento. Il rapporto è quindi contenuto nella sfera dello spirito e solo in qualche caso l'unione è rappresentata dai raggi luminosi, dallo scambio di sguardi o dal braccio alzato della Vergine, a volte in segno di benedizione, altre volte in segno di protezione.

   Dal 1695 la Vergine è raffigurata con un manto, prevalentemente bianco o azzurro e con la corona, a volte entrambi sostenuti da angioletti.

   Sospesa nell'aria, nella luce o tra le nuvole, è spesso affiancata da uno o più santi che con la Madonna intercedono presso Dio. S. Antonio da Padova, ma compaiono in alcune tavolette anche S. Antonio Abate e S. Domenico.

   A cominciare dalla metà del '600 vengono aggiunte le anime del purgatorio in alcune delle tavolette dove si rappresenta un ammalato sul letto di morte (n° 15 e n° 18). Le anime del purgatorio appaiono al di sotto delle figure celesti ed, avvolte nel fuoco purificatore, si uniscono alle suppliche del fedele.

  In alcune tavolette la rappresentazione figurata è accompagnata da una didascalia dove vengono dichiarati la data del fatto, il nome del miracolo, la sigla «P.G.R.» e a volte viene riferita la descrizione degli eventi.

   Il generale le tavolette votive del Santuario sono dipinte su legno, anche se la raccolta ne presenta una dipinta su tela, raffigurante il ribaltamento di una carrozza lungo il fiume Adige (n° 44) e una dipinta su lamina di ferro, la cui lettura, proprio per la corrosione del materiale, risulta assai difficile (n° 47).

   Le tavolette sono per lo più dipinte a tempera, molte volte senza alcuno strato di preparazione, oppure su una imprimitura di gesso e colla. Venivano infisse alla parete con un chiodo passante attraverso un foro centrale posto sulla parte superiore della tavoletta; un altro foro simmetrico sulla parte inferiore consentiva di appendere al di sotto, con una corda, una seconda tavoletta.. Una delle tavolette (n° 11) è stata utilizzata come copertina di un vecchio corale come è testimoniato, oltre che dai diversi segni dell'antica rilegatura, anche dalla caratteristica scrittura gotica della frase paolina«Gaudete, iterum dico gaudete, modestia vestra nota sit omnibus hominibus».

   La maggior parte delle tavolette hanno o hanno avuto una cornice sovrapposta allo stesso piano della tavoletta; in alcuni casi la cornice è raffigurata da un'inquadratura a pennello costituita da una fascia di qualche centimetro di colore scuro lungo tutto il perimetro; una tavoletta (n° 20) ha una cornice intagliata a bassorilievo nello stesso supporto in legno.

   L'infortunistica è il tema maggiormente rappresentato, così come la malattia, le risse, gli assalti e gli agguati.

   Altro genere di ex-voto è costituito da quadri con lavorazioni, il più antico dei quali risale al 1843. Si tratta per lo più di lavori a ricamo i cui temi sono costituiti da decorazioni floreali, cuori, fiori, scritte, immagini, cucite anche in oro. I ricami sono realizzati su pergamena, seta, tela, velluto, lino.

   Tra gli ex-voto sono compresi dei quadri contenenti gli elenchi dei militari combattenti sul fronte dell'Eritrea, dell'Africa occidentale, della Spagna durante gli anni 1935 e 1945.

   Numerosi sono anche gli ex-voto personali di soldati che hanno lasciato un quadro con il loro nome o la loro foto.

   Molti dei preziosi lasciati dai fedeli sono stati fusi nel 1995 per realizzare le corone trafugate della Madonna e del Bambino.

   Un'altra categoria di ex- voto assai numerosa è costituita dai cuori d'argento, spesso racchiusi in cornici od accompagnati dalla foto, ora in parte raccolti in bacheche. Si tratta di lavorazioni di lamine d'argento modellate a forma di cuore (simbolicamente l'organo della vita, ma anche il luogo dei sentimenti più cari) donato alla Vergine come segno di amore eterno.

   Innumerevoli sono poi le fotografie singole o di gruppo che continuamente vengono lasciate presso l'Immagine della Vergine, così come lettere, biglietti da visita, foglietti moltissimi a benedizione, altri per devozione o a protezione, altri ancora «P.G.R.».

   Altri ex-voto sono costituiti da oggetti quali fucili e pistole scoppiati durante lo sparo senza aver provocato alcuna vittima; un frammento di bomba del bombardamento aereo americano su Arzarello di Lendinara che non ha provocato danni gravi né vittime avvenuto il 22 giugno 1942, grucce, bastoni, apparecchi ortopedici di persone che hanno goduto di una guarigione per intercessione della Vergine.
 
Alcuni documenti d'archivio ricordano don Teofilo Malmignati, primo priore, come l'iniziatore del monastero che poi venne inaugurato il 1° settembre 1582 e abitato dai primi sei monaci. Nel '600 aveva al piano terra un refettorio, una cucina e un vano congiunto con la chiesa mentre al primo piano, oltre le celle dei monaci, c'era il «coro degli ammalati», ora usato come cappella, dotato di finestre circolari a contatto con la chiesa per permettere ai monaci infermi o agli ammalati di assistere alle funzioni religiose. I due piani furono collegati con una scala a due rampe «comoda e decorosa», nel primo decennio del '700. Pochi anni dopo, nel 1724, quando era superiore don Giacomo Maria Petrobelli, si restaurò una parte del monastero e in particolare il refettorio, la cucina, la dispensa, la lavanderia e il pozzo e si alzò sopra il refettorio una nuova camera.

   Il decreto di soppressione del monastero del 19 febbraio 1771 portò i monaci Olivetani a lasciare Lendinara. Le chiavi della chiesa furono consegnate all'arciprete di S. Sofia, mentre il monastero e il terreno, così come altri beni dei padri Olivetani furono inizialmente dati in affitto e quindi venduti; la proprietà del santuario comunque venne riconosciuta al Comune.

   Soltanto l'1 agosto 1905 i padri benedettini poterono tornare a Lendinara. Nel 1907 don Luigi Maria Perego si occupò dello sviluppo del monastero apportandovi modifiche, rinnovi e aggiunte, che vennero effettuate anche nel 1912.

   Nel 1935 l'abate Zilianti fece ampliare il monastero ed erigere il salone del Pellegrino, previa demolizione di adiacenze e portici, su disegno dell'ingegnere Paolo Fasiol, podestà di Lendinara. L'intento dell'abate era quello di offrire un locale di accoglienza a tutti i pellegrini che venivano da lontano a pregare la Madonna del Santuario del Pilastrello.

   Il Salone del Pilastrello posto parallelamente al Santuario, delimita un cortile interno del monastero chiuso negli altri due lati da una parte dalla Cappella del Bagno (alla quale è collegato tramite un portico) dall'altra parte da ambienti di servizio del monastero stesso. Fu realizzato lungo la ex via Bragalaro e il terreno adiacente, entrambi ceduti dal Comune. Il Salone del Pellegrino è raggiungibile sia dalla chiesa, passando attraverso l'atrio della Cappella del Bagno, sia da un altro cortile posto su retro del monastero.

   L'abate Zilianti lo descrive fiancheggiato da un artistico portico trecentesco. All'interno del salone riferisce della presenza di un buon numero di pregevoli tele che gli davano l'aspetto d'una pinacoteca.

   Dopo gli spostamenti di vari dipinti nella chiesa si sono conservati nel Salone il busto marmoreo dell'abate Celestino Colombo, opera pregevole dello scultore A. Zonaro, e alcuni quadri fra i quali:
l'adorazione dei Magi;
e la Circoncisione di Gesù di Giacomo Pedralli, bresciano;
Maria Vergine con il Cristo morto, S. Benedetto, S. Scolastica, il Beato Bernardo Tolomei e S. Placido martire eseguita da Paolo Martini, detto l'Armeno, intorno alla metà del 1700, per commissione dell'abate Giacomo Petrobelli, ritratto nella piccola tela che si poteva ammirare al lato sinistro della grande pala.
 
Altri quadri sono: il San Pietro Apostolo e la Madonna con Bambino e S. Giovannino.
 
Allo stato attuale il Salone del Pellegrino è in attesa di interventi di restauro, anche in vista della sua utilizzazione quale sede espositiva di opere d'arte e degli ex-voto del Santuario.

   Durante gli anni in cui era abate Zilianti il numero dei monaci crebbe e il monastero accolse numerosi novizi olivetani. Nel 1946 fece eseguire il disegno e il plastico per costruire ex-novo il monastero.

   Nello stesso anno divenne abate Amedeo Savoi, sotto la cui reggenza venne realizzato il nuovo monastero, iniziato il 30 aprile 1965 su progetto degli architetti Zamboni e Nervanti. Fu solennemente inaugurato il 15 settembre 1968 dal cardinale Benedettino Benno Gut alla presenza delle autorità provinciali e cittadine, del vescovo, degli abati, di diversi superiori e monaci.
 
Il 7 settembre 1578 il consiglio di Lendinara sottoscrisse un atto di investitura del pio luogo alla congregazione olivetana che prese effettivo possesso l'8 settembre festività della Natività di Maria, la solennità maggiore dei Padri benedettini che sono consacrati a Maria Bambina. I primi monaci furono: don Modesto, don Agostino e don Cornelio e come superiore don Teofilo Malmignati che si era impegnato a sostenere la candidatura dell'Ordine presso la municipalità. Don Teofilo provvide ad abbellire la chiesa e ad iniziare i lavori del monastero per garantire ai monaci una dimora idonea. I lavori continuati sotto don Raffaello da Ferrara furono ultimati da don Barnaba Riccoboni.

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    Don Barnaba fu priore nel 1582 e poi nel 1602 - 1603. Di famiglia nobile rodigina, uomo colto, teologo e filosofo raffinato, cultore di matematica, uomo di ingegno acuto. Ottenne diversi incarichi all'interno dell'ordine Olivetano: fu Visitatore del Dominio Veneto, Procuratore Generale dell'Ordine e tra i candidati a superiore Generale. A Lendinara, oltre al monastero, completò la chiesa. Scrisse la prima storia della Madonna del Pilastrello e del Santuario nel libro Miracoli della Madonna di Lendinara nella Gloriosa sua Immaginestampata nel 1584. In appendice a questa pubblicazione, si trova l'approvazione ecclesiastica, la conferma del regolare processo canonico relativo alla veridicità dei miracoli e una particolare approvazione del Vicario Generale del Vescovo che invoca la Madonna come «un Tesoro nascosto che si è aperto ai Lendinaresi». Alla sua morte don Barnaba fu considerato «decoro degli abati».

    Le fonti d'archivio sono essenziali e succinte per i successori che svolsero la carica di priori dal 1585 all'inizio del '600.

    Durante il XVII secolo principalmente due abati incarnarono, in modo esemplare, l'importanza di azione dell'ordine benedettino poiché seppero conciliare una preparazione culturale raffinata, una spiritualità sentita e un vivo interessamento per il santuario: don Michele Cattaneo e don Bartolomeo Arquà.

    Il primo fu nominato abate a soli 24 anni. Esperto conoscitore delle discipline letterarie, filosofiche, nonché teologiche e scientifiche, divenne superiore a Lendinara, sua terra natale, diverse volte e per complessivi 28 anni. Rimase uno spirito schivo, umile benché i successi come fecondo oratore, scrittore apprezzato e socio di diverse e importanti accademie italiane e polesane, fossero molteplici. Rinunciò ripetutamente alle cariche ecclesiastiche preferendo seguire la sua vocazione di monaco che nella preghiera, nella meditazione, nella confessione esprime il suo servizio. Fu esempio di dottrina, di virtù cristiane e di condotta irreprensibile.

    Il lendinarese don Bartolomeo Arquà resse il santuario per 25 anni coadiuvato da ben 8 monaci. Fu letterato e poeta. Svolse l'incarico di Visitatore apostolico, prima nella provincia monastica della Repubblica Veneta e poi Lombarda. Rinnovò il santuario con navate e cappelle e lo adornò con quadri del Mosca e del Celesti. Organizzò, insieme ai quattro deputati del Comune, la solenne incoronazione della Madonna del Pilastrello avvenuta il 25 settembre 1695 come pubblico esaudimento di un voto fatto dalla comunità lendinarese nell'anno della peste (1630) alla presenza del vescovo di Adria-Rovigo mons. Carlo Labia.

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    Don Taddeo Cattaneo, superiore dal 1705 al 1709, divenne dottore in filosofia, diritto canonico, teologia e anche matematica, grazie a don Giuseppe Vidussi, emerito professore. Si dedicò con passione e disponibilità all'insegnamento. Pubblicò diverse opere con lo pseudonimo di «Solitario» tra le quali si ricorda l'Epitome Cattanea, importante volume a carattere storico. Raccolse nuovi miracoli e grazie della Madonna del Pilastrello. Riformò l'accademia cittadina fondata nel 1617 da Lodovico Cattaneo, dividendola in tre sezioni: Composti dove si discutevano argomenti letterari, morali, teologici: Incomposti eAnimosi. Tenne pubbliche discussioni e fu socio, per meriti culturali, delle principali accademie nazionali. Come monaco fu compositore di musica sacra e abile organista, attivo e fervido predicatore, preparato confessore. Si impegnò a incrementare la devozione mariana introducendo nuovi momenti liturgici di preghiera alla Madonna. Fondò la Confraternita della Beata Vergine del Pilastrello composta di laici che si impegnavano nella preghiera, nella devozione a Maria, nel suffragio dei fratelli defunti. Morì a soli 45 anni avendo incarnato in modo esemplare le virtù dei bianchi monaci.

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    Don Mario Spassalini  per 13 anni superiore del Santuario di Lendinara (terra che aveva dato anche i natali) svolse l'attività di insegnante di teologia a Brescia, Roma, Bologna e di filosofia a Firenze e Lucca. Ebbe l'incarico di Visitatore della Congregazione in un momento in cui i monasteri sotto la Repubblica Veneta risentivano di un forte aggravio fiscale dovute alle spese che la Dominante doveva sostenere per la guerra contro i Turchi. Benché operasse in tempi difficili, cercò di prestare attenzione alle necessità del Santuario. Si ritirò nel 1723 a Lendinara fino alla morte.

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    Don Giacomo Maria Petrobelli  fu abate per 37 anni. Dottore in teologia e filosofia, divenne maestro dei novizi a S. Bartolomeo. Fu un animatore della devozione mariana. Nel 1730 per commemorare il centenario della preservazione dalla peste del territorio lendinarese organizzò, insieme al consiglio lendinarese, 3 giorni di solenni festeggiamenti dal 27 al 29 luglio, Il 28 luglio involontariamente prese fuoco l'addobbo del palco dove era collocata l'immagine della Madonna che fu salvata per il provvido intervento di Lorenzo de Matti ma il fatto fu considerato miracoloso perché la Madonna e il Bambino non riportarono nessun danno. Questo miracolo, per volontà dell'abate, fu ricordato nella tela di Francesco Mosca.
 
L'abbellimento del Santuario continuò con il pittore Angelo Trevisani che descrisse i prodigi della Madonna. Don Petrobelli fece restaurare la cupola e la lanterna della cappella della Madonna e anche l'altare della Madonna. Su disegno del perito pubblico Bartolo Albori fece costruire il campanile alto oltre 50 metri sopra le mura della chiesa, opera dell'architetto Francesco Santini. Rinnovò anche una parte del monastero. Lendinara non fu molto colpita dalla peste bovina (1748) e per questo fatto straordinario dal consiglio cittadino si stabilì, con convalida del vescovo Giovanni Mora, un triduo solenne detto «delle Grazie»da celebrarsi ogni anno nel mese di maggio per ottenere la preservazione da ogni tipo di infortunio e come momento di ringraziamento per i benefici ricevuti dalla Vergine (ancor oggi si celebra a metà maggio). Ristampò I miracoli della Madonna (1749) aggiungendo il prodigio durante la funzione dell'incoronazione e il miracolo della preservazione dell'immagine della Madonna dall'incendio del 28 luglio 1730. Da ricordare è anche il fatto che il santuario fu associato alle Basiliche romane. Fu un abate fervido di opere, colto, esempio di virtù.
 
Don Antonio Maria Griffi, di nobile famiglia lendinarese, ebbe come precettore in teologia e filosofia don Giacomo Maria Petrobelli, personalità di spicco come abate e per cultura presso il monastero di S. Bartolomeo di Rovigo. Fu apprezzato per le sue conoscenze di matematica e divenne socio di numerose e prestigiose accademie. La sua carriera nell'ordine monastico lo portò prima ad essere lettore di teologia, poi vicario e infine abate a Lendinara. Alla sua scuola si educarono gli spiriti più significativi per lo sviluppo culturale del territorio lendinarese, personalità che fecero brillare questa terra anche oltre i suoi confini. Basti pensare ai tre fratelli sacerdoti Baccari (Francesco, Gaetano e Giacomo), a Giovan Battista Conti, a Pietro Brandolese che ricordarono con affetto e riconoscenza il Griffi nelle loro opere.

   Dal Consiglio cittadino l'abate ottenne il rinnovo del voto del 16 maggio, in ricordo del trasporto dell'immagine della Vergine dal capitello al santuario, la celebrazione di una S. Messa e di una processione nella festa di S. Giovanni Battista (24 giugno). Intervenne anche nella Cappella della Madonna per sopperire ai danni che l'umidità aveva creato agli stucchi ed agli ori. Nel 1770 fu eletto Visitatore dell'ordine e, con il decreto della Serenissima del 16 marzo 1771 che stabiliva la fine di "ogni perpetuità" nelle cariche abbaziali, divenne abate di regime di S. Bartolomeo. La sua carriera all'interno dell'ordine monastico fu ricca di soddisfazioni e di incarichi prestigiosi in un momento storico in cui la politica napoleonica a più riprese interveniva drasticamente sulle realtà monastiche e parrocchiali. Fu vicario generale dell'ordine, abate generale, procuratore generale, oratore presso la S. Sede anche con delicati incarichi diplomatici all'estero, e infine procuratore della provincia monastica. La sua vita fu un esemplare dimostrazione di amore verso Dio, la Vergine e i fratelli.
 
A lui successe don Giovanni Battista Loredan a cui toccò l'ingrato compito di ricevere il decreto di soppressione del 19 febbraio 1771. Già dall'ottobre il monastero fu chiuso, i monaci lasciarono Lendinara. L'amministratore provvisorio nominato requisì i registri contabili dell'archivio, le suppellettili e l'argenteria. Le vicende della chiesa e del monastero seguirono strade diverse ma solo nel 1905 i bianchi monaci ritornarono chiamati dalla comunità lendinarese. Don Loredan fu l'ultimo abate di quel secolo a Lendinara e nel pur breve incarico profuse la sua attività nel rinnovare il culto di Maria Bambina esponendo pubblicamente sull'altare di sagrestia una statua in cera che la raffigurava, ricevuta come dono testamentario dal padre Guglienzi.
 
 Come altre realtà monastiche sotto il dominio veneto nel 1652, 1654 e 1677 il santuario fu raggiunto da decreti pontifici di soppressione voluti dalla Repubblica Veneta impegnata nella guerra contro i Turchi. Non divennero, però, mai esecutivi specialmente per l'attività e la stima che gli abati olivetani riscuotevano. La chiesa, a titolo d'onore, fu aggregata alle basiliche di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore a Roma nel 1744. Questo fatto comportava il privilegio per i fedeli che si recavano in visita al santuario, di poter acquistare le medesime indulgenze plenarie e grazie spirituali delle basiliche romane. Negli ultimi decenni del secolo diversi interventi normativi della Serenissima furono volti a limitare le entrate economiche degli ordini religiosi e ad intervenire nella loro organizzazione interna, arrivando perfino a deciderne la chiusura. Così avvenne anche per la chiesa e il monastero dei padri Olivetani di Lendinara il 19 febbraio 1771, quando la Serenissima soppresse il monastero perché aveva meno di 15 monaci. Il monastero venne provvisoriamente affidato all'amministrazione di don Domenico Zannin di Rovigo per poi passare al demanio veneto. Fu acquistato in asta dal nobile lendinarese Francesco Leopardi che nel marzo del 1788 lo cedette alla famiglia Mischiatti. Dopo alterne vicende il Comune e la generosità del cav. Silvestro Camerini riadattarono il monastero ad «asilo di mendicità» inaugurato nel 1852. Il consiglio di Lendinara cercò di evitare la messa all'asta del santuario indirizzando una supplica al Senato veneto rivendicando il diritto di proprietà sulla chiesa e chiedendo di conservare la titolarità del culto, il mantenimento della chiesa e la restituzione delle suppellettili sacre. Il senato veneto concesse il 23 dicembre 1771 alla Comunità di Lendinara di assumere il giuspatronato laico sul Santuario e di incaricare sacerdoti secolari per adempiere agli uffici sacri. Essi presero il titolo di custodi fino al 1843 e poi di rettori per decreto del vescovo diocesano mons. Antonio Squarcina. Spiritualmente dipendevano dall'arciprete di S. Sofia.

   Dei primi tre, don Antonio Cattidon Pietro Violani don Lazzaro Picchini, non sono rimaste particolari testimonianze.

   Nel 1787 (e fino al 1822) fu nominato rettore don Giacomo Baccari di Lendinara, appartenente ad una famiglia che ebbe un ruolo importante nella storia della città sia nel campo religioso, che culturale e artistico. Benché operasse in un momento storico in cui Lendinara e il Polesine erano dominate da francesi e da austriaci e la popolazione versasse in condizioni di miseria, seppe operare per la rinascita spirituale e l'abbellimento architettonico del Tempio. Rifacendosi alla sua esperienza di abile architetto, progettò l'ampliamento della sagrestia, la totale trasformazione della cappella dell'Ascensione in modo che diventasse parallela a quella della Madonna e così si creasse un regolare transetto nella chiesa, chiamò pittori famosi come lo Sciacca e il Minozzi, dotò il campanile di un concerto di sei nuove campane, ricostruì la Cappella del Bagnoarricchendola di una fonte e vasca nuovi. A questa fervida attività unì un'attenzione e uno zelo particolari nel commemorare gli anniversari importanti nella storia della chiesa e nell'organizzare il trasporto del S. Simulacro della Vergine dalla primitiva cappella laterale sull'altare maggiore. Inoltre riuscì a riportare la chiesa al titolo di santuario. A testimonianza di questo impegno papa Pio VII lo nominò nel 1816 protonotaro apostolico e a perenne ricordo nell'atrio della cappella del Bagno si può ammirarne il busto in legno.

   Don Serafino Petrobelli, di origini lendinaresi, fu il successore di Baccari. Si fregiò del titolo di custode fino al 1843 mentre dal 1844 poté firmare come rettore, pur conservando la dipendenza da S. Sofia. Fu esemplare sacerdote nel vivificare la devozione dei fedeli verso la Madonna ed inaugurò l'oratorio votivo a Pradespin costruito in segno di ringraziamento per la scampata inondazione dell'Adige del 1837. A lui si deve l'Indice delle sante reliquie, una Descrizione delle pitture e sculture e iscrizioni marmoree esistenti nella chiesa, un inventario degli arredi sacri e una narrazione storica dell'Immagine della Vergine. Un ritratto del pittore Luigi Guarnieri immortala il suo aspetto devoto.

   Don Gaetano Baccari, nipote dell'omonimo custode, resse come rettore il santuario dal 1852 al 1870. Commissionò al pittore Giovanni Baccari 12 tele ad olio, oggi restaurate, per la Cappella del Bagno in quanto le altre erano state corrose dall'umidità del muro, restaurò l'organo e l'altare di sagrestia, rifinì la casa del rettore, commissionò il disegno della facciata del Santuario approvato dalla Commissione dell'ornato ed eseguito da Silvio Soà. A questo si aggiunga un triduo solenne nel 1855 per la proclamazione del dogma dell'Immacolata e l'introduzione della recita quotidiana del rosario dal 1861. Fu affiancato negli ultimi 10 anni da don Benedetto Fava in qualità di vice-rettore.

   Don Paolo Campioni è legato come rettore dal 1870 al 1882 a due avvenimenti in particolare: nel 1877 commemorò per la prima volta il 3° centenario della posa della prima pietra per l'erezione del Tempio mariano e l'istituzione nel 1879 (anniversario del trasporto del S. Simulacro della Vergine dal Capitello alla chiesa) dell'annuale processione delle parrocchie del territorio.

   Don Luigi Fabbris, rettore dal 1882 al 1888, già cantore stipendiato del Santuario, è ricordato per aver ottenuto con Breve papale di Leone XIII, i benefici di altare privilegiato per quelle del Bagno e, ultimo ma non meno importante, aver sottoscritto il capitolato degli obblighi inerenti al rettore verso il Santuario, l'arciprete di S. Sofia, il Comune il fabbricieri.

   Con don Leonardo Corà (1888 - 1905) si chiude la presenza dei rettori in Santuario. Fondò l'associazione degli iscritti alla Compagnia del Patrocinio di N. S. del Pilastrello (ancor oggi esistente) e organizzò il primo pellegrinaggio diocesano al santuario nel 1895 in occasione del 2° centenario dell'incoronazione del S. Simulacro.
 
Nel 1905 il Consiglio Comunale a nome della comunità, invitò la congregazione di Monte Oliveto a riprendere l'officiatura del Santuario. Dopo l'approvazione di Papa Pio X e del Padre Generale dell'ordine, i bianchi monaci ritornarono a Lendinara.

   Il primo superiore nel 1905 fu don Luigi Maria Perego. E' ricordato per aver ristrutturato la cappella del Bagno dotandola di una vasca monolitica di marmo di Carrara contornata da quattro angioletti che versano acqua e di averla abbellita con un capitello recante la statua della Madonna, opera di Carletti su progetto dell'architetto Rupolo. Dal 1921 queste opere scultoree sono state collocate nell'atrio. Riuscì ad ottenere la seconda solenne incoronazione del Simulacro della Vergine nel 1906 e cinque anni dopo l'elevazione della chiesa alla dignità di «basilica minore». Il monastero fu innalzato a «casa regolare»con tutte le prerogative connesse al ruolo di «Familia Formata» e il Perego fu nominato priore di regime.

   A questo fervore di attività si associò una profonda spiritualità che lo portò nel 1920, dopo qualche anno che aveva lasciato Lendinara, a recarsi a San Paolo in Brasile, nel quartiere degli emigrati italiani, a fondare una missione olivetana. Questa esemplare figura di monaco apostolo desiderò in punto di morte di morire ai piedi della Madonna del Pilastrello, richiesta irrealizzabile ma specchio di un sentito e amorevole legame verso la Madonna e Lendinara.
 
Don Celestino Maria Colombo, personalità riflessiva, umile e mite svolse gli studi di noviziato a Seregno dove celebrò la sua prima messa nel 1896. Fin da subito predilesse l'insegnamento del latino e della filosofia, la predicazione e l'attività in confessionale. Nel 1907 a Foligno diventa priore della comunità e parroco di Santa Maria in Campis e contemporaneamente insegnante di teologia dogmatica al seminario di Spoleto e poi a Norcia. Il 17 febbraio 1914 entra come priore a Lendinara e quando il breve del papa Benedetto XV innalza la chiesa di Lendinara ad abbazia, Celestino viene eletto primo abate con generali parole di plauso. Restaurò il Bagno, collaudò un nuovo e imponente organo, organizzò in modo egregio il centenario del miracolo della Madonna. A queste attività associò una spiritualità senza uguali che lo portò a diventare una guida spirituale per moltissimi fedeli sia nei momenti difficili della prima guerra mondiale, sia in seguito. Le sue prediche furono il lievito fecondo di vocazioni e della costituzione di dieci Case di riparazione Benedettina Eucaristica della Federazione di Ghiffa. Le grazie che l'abate ottenne costellarono tutta la sua vita fin dalla giovinezza quando miracolosamente guarì da una costituzione gracile e malaticcia che aveva messo in pericolo la sua vocazione religiosa. Morì il 24 settembre 1935 festa della Madonna della Mercede e i funerali di qualche giorno dopo videro un accorrere numerosissimo di persone.

   Il desiderio dei fedeli della Madonna del Pilastrello, fu esaudito da padre Zilianti il 24 settembre 1936 quando il corpo dell'abate Celestino Maria Colombo fu tumulato in santuario, nel coretto, a destra della navata centrale, con questa lapide «Qui nella pace dei giusti, sotto le ali materne di Maria, riposa per volontà dei confratelli e per plebiscito di popolo, la Salma dell'Abate P. Celestino Maria Colombo O.B.S. Olivetano primo della serie degli Abati rinnovellò la vita del Santuario, con la magnificenza dei restauri, con la fiamma dello zelo, con l'austerità dell'esempio».
 
Don Romualdo Maria Zilianti, abate dal 1935 al 1946, fu un uomo con altissime capacità organizzative, profonda fede e spirito di servizio. Operò in anni storicamente difficili, contrassegnati dalle imprese coloniali in Africa e dallo scoppio della seconda guerra mondiale.

   La sua presenza in Santuario fu caratterizzata da diverse e valide iniziative. Nel 1936 fece costruire il Salone del Pellegrino per dare ospitalità ai devoti e lo dedicò a  don Celestino Colombo. Inoltre organizzò il trasporto della salma del monaco in Santuario e su di lui scrisse un opuscolo. Diede alle stampe anche la prima guida storico-artistica del santuario e riprese la pubblicazione del bollettino mensile «Il Pilastrello»; ristampò il«Teoretto Mariano».

   A cento anni dal scampato pericolo dell'inondazione dell'Adige, a Pradespin, organizzò la prima uscita della statua della Madonna in questa località dove nel 1938 era eretta una nuova chiesetta adorna di una riproduzione lignea del simulacro della Madonna del Pilastrello opera dello scultore Antonio Musner della Valgardena.

   Restaurò la basilica sotto la vigilanza dell'ispettore Giuseppe Marchiori della Sovrintendenza ai Monumenti. Gli interventi interessarono il complesso architettonico e decorativo e furono eseguiti in particolare dal pittore Giuseppe Chiacigh.

   Nel settembre del 1942 organizzò una nuova solenne incoronazione della Madonna del Pilastrello per riparare all'atto sacrilego, avvenuto l'11 marzo dello stesso anno, con il quale erano stati sottratti tutti i preziosi ex voto. Non mancò di predisporre momenti e giornate di preghiera per invocare la protezione mariana, organizzò pellegrinaggi penitenziali e, seguendo le indicazioni papali, consacrò le famiglie lendinaresi al Cuore Immacolato di Maria.

   Si fece interprete delle esigenze assistenziali della comunità: costituì il gruppo«Unitalsi», per il trasporto degli ammalati in santuario.

   Lendinara gli dimostrò stima e affetto attribuendogli il titolo di «primo patriota di Lendinara» e poi di «Figlio diletto e cittadino onorario» in quanto con il suo intervento furono salvati da sicura morte diverse decine di lendinaresi rastrellati da brigate repubblichine in ritirata.

   Lasciò Lendinara, dopo la fine della guerra, per assumere l'incarico di abate generale dell'ordine olivetano, lasciando una testimonianza indelebile di profonda sensibilità pastorale, di appassionata devozione alla Beata Vergine del Pilastrello, di interprete attento delle esigenze della comunità locale dalla quale ottenne stima, affetto e riconoscenza.

   L'eredità spirituale, lo zelo e l'impegno civile furono continuati dall'opera instancabile e meritoria degli abati don Amedeo Savoi (1946-1983), don Guido Bosini (1984-1995), dal 1995 al 2000 dal rettore don Giacomo Ferrari. Dal 22 gennaio 2001 Abate è don Diego Rosa.